Call for papers / Federico Oliveri

La guerra in Ucraina sta procedendo da oltre un anno, senza accordi su temporanei cessate il fuoco né prove di vero negoziatoLa difficoltà ad avviare negoziati efficaci, l’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO e la rimilitarizzazione degli Stati, stanno riproponendo uno scenario di disordine internazionale e riducendo gli spazi per soggetti “terzi” e/o “neutri”, quelli che dovrebbero agire secondo imparzialità e garantire giustizia e rispetto del diritto internazionale. L’articolo si propone di riabilitare le categorie di neutro e di terzo nei processi di risoluzione delle controversie internazionali, e di sollevare i problemi e le contraddizioni che la loro scomparsa sta provocando per un ordine mondiale di pace e sicurezza.

Questo contributo intende evidenziare gli impatti geopolitici e sociali che la guerra in Ucraina-Russia provocherà nel medio e lungo termine, in relazione alle molteplici crisi (energetiche, alimentari, ecc.) che la società mondiale sta affrontando. Dal punto di vista metodologico, si tratta di uno studio comparativo tra due modi di affrontare il capitalismo, da parte del blocco occidentale e di quello orientale. Inoltre, viene impiegato il metodo Transcend, che costituisce un modo di pensare dalla Peace Research attraverso un processo di diagnosi, prognosi e terapia, accompagnato da una rassegna bibliografica sugli eventi più recenti. I fatti indicano una crisi del capitalismo e lo sviluppo di scontri per mantenere l'egemonia degli Stati Uniti e dell'Europa contro altri attori come Cina, Russia e Arabia Saudita, tra gli altri, che sono interessati a un nuovo ordine mondiale in cui gli Stati Uniti cesseranno di essere la potenza egemonica. La guerra Ucraina-Russia è uno dei fattori tra le molteplici carte che vengono mescolate per rompere l'attuale assetto della globalizzazione. In conclusione, il contributo traccia il quadro della nuova articolazione mondiale, che probabilmente emergerà, in cui Stati Uniti e Cina si scontreranno nei prossimi anni per costruire un nuovo paradigma di sicurezza con i rispettivi satelliti. Polarizzando ancora di più le relazioni tra Stati Uniti e UE, da un lato, e Cina e Russia dall'altro, come estremi di conflitti futuri.

Il paper intende ripensare la narrazione della pace e della guerra mettendo in luce alcuni travisamenti concettuali. La Pace positiva è ben insediata negli Studi per la Pace come uno stato originario ‘buono’ (della specie umana, della società) che è stato infranto, ma restaurabile attraverso la mitigazione/eliminazione dei fattori ‘negativi’ siano essi le disuguaglianze, la tecnologia disumanizzante, le istituzioni corrotte, le asimmetrie di potere. Come dire che il negativo/il male è un accidente della storia e, combattendolo con mezzi positivi (empatia, carità, welfare, empowerment, interdipendenza economica, accordi internazionali, ecc.), dovrà riunirsi al bene/il positivo: idea di pace e società future prive di conflitti. Tale versione imperfetta non ha considerato nel suo pieno significato la dialettica degli opposti finendo per ostracizzare le concezioni che sollevano perplessità sulla ‘bontà’ dell’essere umano. Le ha tradotte in aforismi pressoché solo intimidatori, diffondendo ambivalenza verso la guerra. La teoria contrattualistica (Hobbes) vuol dimostrare che allo Stato spetta il ruolo di mediatore e controllore delle tendenze egoistiche e distruttive dei singoli; per tal via si pone garante di accordi fra gli individui per una reciproca sicurezza (così propiziando l’idea di società civile). La socialità (Rousseau) è intesa come atto secondario, non naturale, inventata dall’essere umano per paura dell’altro e dell’ignoto, mosso da passioni in parte positive e in parte negative. In Vom Kriege (von Clausevitz) la guerra è una tragedia a cui porta un cattivo uso della politica: spiegarla nelle sue matrici e tecniche ha il fine di elaborare strategie per fare sia la guerra che la pace. Ripensati questi concetti cardinali e altri a cascata (in primis quelli di conflitto e nonviolenza), il paper ne sperimenta la portata esplicativa procedendo a legare teoria e prassi in riferimento all'odierno evento bellico russo-ucraino.

L'allargamento della NATO negli anni '90 del XX secolo è derivato da molteplici ragioni, ma principalmente dalla forte volontà di alcuni paesi ex socialisti di tagliare in maniera irreversibile ogni legame con la Russia, prevedendo il rischio di un ritorno di quel paese ad ambizioni imperiali. Inoltre i negoziati per l'adesione alla NATO sono stati lo strumento che i paesi dell'est Europa hanno utilizzato per accelerare la loro inclusione nell'Unione Europea. Il conflitto nell'ex Jugoslavia ha offerto un nuovo compito all'Alleanza Atlantica, che dall'intervento armato in Bosnia si è reinventata come strumento di pacificazione, democratizzazione e difesa dei diritti umani in Europa e altrove. L'Unione Europea in realtà si è mossa lentamente e con un atteggiamento prudente, ma probabilmente le preoccupazioni di sicurezza sollevate dal conflitto in Bosnia hanno costretto l'Unione ad accelerare l'inclusione dei paesi dell'est, anche se all'inizio i leader europei miravano a includere solo alcuni paesi, vale a dire Polonia e gli altri membri del gruppo di Visegrad. Infine, quando l'Unione Europea nel 1997 ha deciso di aprire le porte a tutti i paesi dell'est, eccetto l'Ucraina, le riforme politiche ed economiche imposte ai paesi candidati hanno facilitato la loro adesione alla NATO, compresi i paesi baltici, contribuendo a rimuovere alcune questioni politiche, come la posizione delle minoranze all'interno dei nuovi stati democratici, che avrebbero potuto impedire la loro inclusione nella NATO.

L’aggressione russa all’Ucraina ha avuto, tra le altre conseguenze, quella di legittimare ancora una volta la guerra e, più in generale, lo strumento militare come mezzo chiave per la risoluzione delle crisi. L’inasprirsi del conflitto ha anche messo in evidenza come rimanga forte nella nostra cultura politica l’idea che pace significhi essenzialmente assenza di guerra. Ma la sola assenza di guerra rischia sempre di assomigliare a quella che Tacito mette in bocca al capo Caledone Calgaco: «dove fanno il deserto, la chiamano pace». Gli studiosi di pace hanno ben chiaro che la pace è un qualcosa di molto più ricco e articolato della mera assenza di guerra. Accanto a una “pace negativa”, caratterizzata da assenza di violenza fisica, troviamo così, grazie a una fortunata intuizione di Johan Galtung, l'idea più ampia di una “pace positiva”, fondata sull'assenza di violenza non solo fisica ma anche strutturale e culturale (1964). In questo articolo, ampliando la riflessione sulla “pace positiva”, riformuliamo il concetto di pace riallacciandoci all'idea di pace-shalom biblica, per concentrarci poi, in un’ottica sistemica, sulle interazioni fra mezzi e fini, fornendo delle esemplificazioni di quanto sostenuto.

All’alba del 24 febbraio 2022 le truppe della Federazione Russa hanno invaso l’Ucraina. Il numero dei morti e dei feriti militari e civili, gli oltre 6,2 milioni di profughi ucraini (di cui più di 5,8 in Europa), i pesanti danni subiti da città, villaggi e infrastrutture, i quantitativi di armi già impiegati o pronti all’uso, sono solo alcuni dei dati che fanno di questa guerra una delle più gravi degli ultimi decenni. Il coinvolgimento diretto e indiretto delle principali potenze nucleari del pianeta, la presenza di milizie mercenarie, l’invio e l'uso di armi vietate dalle convenzioni internazionali come le cosiddette bombe a grappolo, il ricorso a droni armati navali e aerei, munizioni all'uranio impoverito, sanzioni, blocchi navali e sabotaggi, ne fanno anche una guerra “ibrida” particolarmente complessa, capace di produrre effetti imprevedibili su larga scala e nel lungo periodo. Tuttavia, dopo una fase di notevole attenzione mediatica, segnata da una forte polarizzazione, il sostanziale stallo delle operazioni militari, l’assenza di trattative di pace e la prospettiva di un prolungamento indefinito del conflitto rischiano di produrre una “normalizzazione della guerra”. In questo quadro, abbiamo invitato il mondo della ricerca a proporre le proprie analisi della guerra in corso, sulla cui base costruire possibili vie per una pace equa e duratura. Gli autori e le autrici che hanno deciso di partecipare a questo numero monografico della rivista hanno offerto preziosi contributi in questa direzione, partendo da prospettive disciplinari e posizionamenti ideologici diversi. Questa introduzione propone un percorso di lettura trasversale ai diversi lavori, così da metterne in luce le diverse risposte offerte ad alcune domande che riteniamo fondamentali: Quali sono i diversi punti di vista sulla guerra in Ucraina ed esiste una via per arrivare a una loro sintesi e ricomposizione? Come è stato raccontato il conflitto armato in Ucraina e che effetti ha avuto tale narrazione sulla comprensione della guerra e sulle prospettive di pacificazione tra i diversi attori coinvolti? Quali argomenti sono stati utilizzati nel dibattito pubblico per giustificare il ricorso alla forza armata? Perché tra i governi occidentali e in parte dell’opinione pubblica si è affermata la convinzione che il principale (se non l’unico) supporto possibile all’Ucraina invasa fosse di natura militare? Quali sono le cause prossime e quali quelle più profonde della guerra in corso? Tenendo conto delle modalità con cui è stata condotta la guerra e dei suoi effetti, oltre che delle sue cause profonde, quali vie d’uscita nonviolente sono praticabili? Confidiamo che i lavori inclusi in questo numero possano contribuire a una migliore comprensione del conflitto in corso, offrendo al contempo valide indicazioni per la sua conclusione diplomatica e per la costruzione di una pace duratura, nel quadro di un equilibrato ordine mondiale.

Il presente lavoro discute la portata e il grado di attuazione del principio di solidarietà, che giustifica l'azione dell'Unione Europea sia all'interno che all'esterno dei propri Stati membri, in relazione alla Convenzione sui Diritti del Fanciullo e alla realtà della violazione di questi diritti in Brasile, come esemplificato dal gran numero di minori privati della libertà nei centri di detenzione socio-educativi. La letteratura sull'argomento viene passata in rassegna per identificare la possibilità legale dell'Unione Europea di operare al di fuori del proprio blocco di Stati membri, allo scopo di proteggere i diritti di questi giovani. I dati secondari sono utilizzati per illustrare la realtà di tali violazioni dei diritti dei giovani, sia quando entrano in conflitto con la legge sia quando sono vittime dell'azione dello Stato, come modo per giustificare una possibile azione dell'Unione Europea in Brasile. I precetti degli studi decoloniali sono utilizzati per esaminare come questa applicazione del “principio di solidarietà” potrebbe essere resa operativa, nella consapevolezza che l'unico modo possibile per raggiungere questo obiettivo comporterebbe l'assunzione di responsabilità per gli investimenti economici nella riduzione delle disuguaglianze.

Il conflitto in Ucraina sta contribuendo a enfatizzare le logiche sottese alla rappresentazione dei conflitti e alla partecipazione, anche di natura affettiva ed empatica, agli stessi. In particolare, secondo alcune interpretazioni della letteratura, le immagini mediali solleciterebbero l’attenzione degli spettatori verso i conflitti degli Altri, lontani geograficamente o culturalmente. Lo scopo di questo contribuito teorico è di sollecitare interrogativi in merito a tali meccanismi nel complesso ecosistema delle piattaforme online, considerate, a volte ingenuamente, come potenti inneschi per la partecipazione affettiva. Partendo dalle suggestioni classiche in merito al ruolo dei media nei conflitti implicate da approcci come il CNN Effect, si prenderanno in considerazioni le forme di sensible politics attivate dai meccanismi di visibilità delle piattaforme, considerando il conflitto in Ucraina come un laboratorio nel quale leggere scenari in divenire.

Due tipologie di costellazioni di sicurezza sono immaginabili tra le grandi potenze: il classico equilibrio di potere (realismo) o la cooperazione sotto forma di sicurezza collettiva (liberalismo). Questo articolo postula che quest’ultima tipologia abbia maggiori possibilità di prevenire le guerre rispetto alla prima. Il caso di studio che viene sviluppato è il rapporto tra la Russia e l'Occidente dopo il 1989. L'Occidente non è riuscito a integrare su un piano di parità la Russia nell'architettura di sicurezza euro-atlantica dopo la Guerra Fredda. La NATO non solo è rimasta in vita: si è anche ampliata costantemente, con la promessa nel 2008 di includere la Georgia e l'Ucraina. Il risultato è stato il proseguimento del gioco degli equilibri di potere tra Russia e Occidente, conclusosi con lo scoppio della guerra in Ucraina: un esito prevedibile in via teorica e che, in realtà, era già stato previsto da esperti come George Kennan negli anni '90 del secolo scorso.

Il sostegno al governo ucraino nella guerra contro l’invasione russa è giustificato, nell’opinione pubblica italiana (ed europea), con l’esigenza difendere un popolo aggredito: si tracciano paralleli tra la situazione in Ucraina e la lotta partigiana al nazifascismo, e si insiste sul fatto che non è possibile costruire la pace senza ristabilire il diritto violato da parte del governo di Putin. In questo articolo si mette in evidenza che una simile giustificazione presenta due problemi che la rendono difficilmente accettabile. Il primo è il semplicismo: fondandosi su coppie concettuali grossolane (bene/male, aggressori/aggrediti), essa non permette di cogliere la complessità della situazione e, dunque, di proporre soluzioni efficaci. Il secondo è l’incoerenza tra il mezzo che si vuole utilizzare (la guerra) e l’obiettivo che si intende raggiungere (la difesa del popolo ucraino): un’incoerenza dovuta al fatto che la guerra – specie se protratta nel tempo e condotta con armi altamente distruttive - implica necessariamente per il popolo che la subisce un carico di morte e distruzione almeno paragonabile a quello di una dominazione straniera. In conclusione, l’articolo riflette sul dovere degli uomini e delle donne di studio, che non è quello di dichiarare giusta (o inevitabile, o santa) la guerra, ma quello di richiamare le classi dirigenti e le opinioni pubbliche dei paesi democratici alla necessità di far cessare la violenza, di rimettere la soluzione alle trattative e alla ragionevolezza, di provare a gettare ponti nonostante tutto.

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