Lo scopo di questo articolo è quello di fornire un personale ricordo di Alberto L’Abate, illustrando il ruolo che egli ha svolto nell’ambito dell’esperienza non violenta italiana. Fare questo implica ricostruire la storia delle persone e dei movimenti non violenti a partire dal 1989, impresa non agevole e che richiede il superamento delle tradizionali impostazioni accademiche. Difatti, la storiografia dei movimenti non violenti richiede il passaggio da un approccio descrittivo ad uno interpretativo. Dopo aver esposto i quattro modelli di sviluppo (MDS) proposti da Lanza del Vasto negli anni ’50 e poi da Galtung negli anni ’70, l'articolo inquadra la storia politica del XX secolo nei suddetti modelli. Infine, l’autore offre una breve esposizione della vicenda non violenta italiana, sottolineando le peculiarità rispetto al panorama europeo. È all’interno di questo quadro che si colloca l’attività di L’Abate, come illustrato attraverso una tabella che permette di cogliere graficamente il suo apporto alla non violenza italiana.
Il presente contributo propone di descrivere come, all’interno di un Corso progettuale in design del prodotto, venga affrontato il tema delle migrazioni a partire dall’analisi delle principali tappe che contraddistinguono il percorso di profughi e rifugiati, dalla partenza fino all’arrivo e alla permanenza nel paese ospitante. L’articolo verte, in particolar modo, sulla disamina di due principali metodologie di design: il pensiero laterale e il design thinking, che vengono utilizzate durante tutto lo svolgimento del progetto. A supporto dei commenti metodologici, verranno illustrati due tra i sette progetti nati all’interno del Corso: Grab.m e Kala, che si concentrano rispettivamente sul tema della traversata in mare e su quello dell’integrazione culturale.
Il saggio ricostruisce la pratica della Clinica di Malattie Nervose e Mentali di Pisa durante la Prima Guerra mondiale. Più in particolare si fa riferimento all’ampia letteratura sul ruolo dello psichiatra nella società, e sul problema della psichiatria di guerra, già problematizzato e dibattuto nel corso dei conflitti coloniali. Sullo sfondo di questo dibattito ideologico, vissuto in modo polivoco dalla classe dirigente nazionale, si prende in analisi il problema scientifico dell’eziologia traumatica dei disturbi psichiatrici. Si considera in particolare il caso della Clinica di Pisa, e di diversi documenti da essa prodotti. Emerge nei casi considerati, infatti, l’apparente contraddizione di una “malattia impossibile”, diagnosticata presso la popolazione militare ricoverata ma non fra i civili. In effetti, in questo periodo storico, la scienza psichiatrica italiana sembra non contemplare la possibilità che una patologia psichiatrica insorga per una diretta causazione bellica. Si propone di sciogliere questa problematica, nel caso dei documenti presi in esame, rilevando il dettaglio della pratica clinica, che risulta differenziata in questo genere di casi, e considerando alcuni sviluppi successivi.
Il sistema politico Iraniano, basato dal 1979 sulla legge islamica (la legge della Shari’a), così come il suo governo in carica, stanno affrontando numerose sfide e vere e proprie crisi esistenziali, tipiche di una società segnata dalle contraddizioni delle società in transizione. In questo caso, una delle contraddizioni principali riguarda il rispetto dei principi giuridico-morali islamici, che erano l’obiettivo fondamentale della Repubblica Islamica dell’Iran. Questo articolo intende mettere in discussione, almeno in parte, le radici profonde degli attuali problemi attraverso analisi approfondite del potere politico iraniano e della sua evoluzione, ritornando al primo movimento popolare moderno del paese e al fallimento della rivoluzione costituzionale del 1906, i cui effetti durano fino ad oggi. In questo quadro, anche una riflessione sul ruolo degli intellettuali secolari e degli scienziati religiosi iraniani e sulla loro influenza nel dibattito pubblico sarà considerato. Infine, è opportuno concentrarsi sulla carta costituzionale attuale e su come venne stabilita, in particolare sul principio del velāyat-e faqih (tutela del giurisperito) e sulle sue conseguenze teorico-pratiche, dopo che il popolo iraniano è stato governato da un governo laico come quello di Pahalvi (1925-1979) per quasi mezzo secolo.
Quando, dopo la morte di Pio XII, il 28 ottobre 1958 fu eletto papa Angelo Giuseppe Roncalli, il quale assunse il nome di Giovanni XXIII, per lui si prospettava un mandato di breve durata ed effettivamente il suo pontificato sarebbe terminato solamente cinque anni più tardi. Di fronte alle trasformazioni economiche e sociali che caratterizzarono l’Italia negli anni Cinquanta, Roncalli ritenne necessario per la Chiesa aggiornarsi e confrontarsi con le nuove esigenze che si ponevano alla coscienza dei cristiani; quest’intuizione si tradusse nella convocazione del Concilio Vaticano II (1962-1965), che fin da subito rivelò uno scontro all’interno delle riunioni tra una maggioranza fedele alla tradizionale dottrina cattolica e una minoranza disponibile all’apertura; uno scontro che troverà eco nelle riviste e che avrà come risultato diverse interpretazioni dei documenti conciliari. Una differente ricezione politica del Concilio base di trasformazione che ha coinvolto le stesse organizzazioni di massa dei cattolici, l’Azione Cattolica, le Acli, la Democrazia Cristiana e che, grazie all’incontro con i movimenti giovanili, è diventata contestazione aperta dentro la Chiesa, e il cui obiettivo non fosse quello di una distruzione dell’istituzione, bensì una fedele e rigorosa ripresa della Chiesa di Cristo, sempre più nascosta e sostituita da un’organizzazione di potere che tramava relazioni economiche e politiche e che si rendeva complice del capitalismo nel perpetrare ingiustizie in terre vicine e lontane. Una Chiesa altra che non voleva diventare però un’altra Chiesa. I primi due capitoli saranno dedicati allo svolgimento del Vaticano II e all’opera di pace promossa da papa Roncalli, in particolar modo all’enciclica Pacem in Terris, promulgata nel’aprile 1963.
In questo contributo l'autore discute criticamente il concetto di "populismo", tentando di renderlo funzionale ad una analisi empirica. A questo scopo viene individuato come caso di studio la retorica politica dell'ex Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, attraverso una analisi del discorso e dei suoi contenuti. Sulla base di due categorie fondamentali e di quattro sottocategorie, l'autore prova a mostrare che il populismo può essere individuato anche in un leader che non è espressione di movimenti o partiti di destra, e che in Italia si assiste all'emersione di una specifica forma di populismo, istituzionale e "dall'alto" secondo la definizione offerta dalpolitologo Marco Revelli. Il caso di studio selezionato vuole contribuire ad approfondire, in termini teorici ma anche sulla base di evidenze empiriche, lo studio del populismo in Italia.
La recente elezione di Jair Bolsonaro come Presidente del Brasile solleva una serie di dubbi sul futuro dello Stato costituzionale nel paese. Queste preoccupazioni derivano da sue precedenti prese di posizione rese note in passato o durante la campagna elettorale. Su diversi temi, Bolsonaro ha espresso posizioni incompatibili con i fondamenti dello Stato costituzionale, specialmente sotto il profilo dei diritti fondamentali e della loro tutela. Questo contributo dà particolare rilievo a quelle tematiche che, con ogni probabilità, saranno quelle più interessate come l'ambiente, la sicurezza pubblica, la politica estera e i diritti sociali. Il paper ha per obiettivo di discutere i rischi che lo Stato costituzionale brasiliano sta affrontando e si troverà ad affrontare in futuro. Da questo punto di vista, porta l'attenzione sulle sfide che i giuristi dovranno affrontare in questa nuova fase. L'analisi assume come punto di riferimento il quadro normativo della Costituzione brasiliana del 1988. Si basa sulle informazioni disponibili sui media relativamente alle idee di Bolsonaro e dei suoi sostenitori, sul suo programma di governo e sui suoi primi atti come Presidente.
Il saggio si propone come un’indagine sullo stato dell’educazione all’interculturalità nel nostro paese, da intendersi come consapevolezza maturata, e strategie agite, di fronte alle questioni della diversità culturale, da tre istituzioni strategiche della sfera pubblica: l’università, che ha il mandato di formare le figure professionali del futuro; le organizzazioni, pubbliche, private e non profit, obbligate, per sopravvivere, ad intercettare e ad affrontare con tempestività l’evoluzione della società; i media, protagonisti della vita culturale e politica e produttori delle narrazioni che alimentano gli immaginari popolari. Nello specifico, la riflessione si fonda sui risultati di tre azioni di ricerca realizzate dagli autori nell’ambito delle attività di un progetto europeo (Codes - Communication, Diversité, Solidarité), e il presente paper costituisce la prima occasione di presentazione pubblica dei medesimi a livello nazionale.