Call for papers / Federico Oliveri

L’aggressione russa all’Ucraina ha avuto, tra le altre conseguenze, quella di legittimare ancora una volta la guerra e, più in generale, lo strumento militare come mezzo chiave per la risoluzione delle crisi. L’inasprirsi del conflitto ha anche messo in evidenza come rimanga forte nella nostra cultura politica l’idea che pace significhi essenzialmente assenza di guerra. Ma la sola assenza di guerra rischia sempre di assomigliare a quella che Tacito mette in bocca al capo Caledone Calgaco: «dove fanno il deserto, la chiamano pace». Gli studiosi di pace hanno ben chiaro che la pace è un qualcosa di molto più ricco e articolato della mera assenza di guerra. Accanto a una “pace negativa”, caratterizzata da assenza di violenza fisica, troviamo così, grazie a una fortunata intuizione di Johan Galtung, l'idea più ampia di una “pace positiva”, fondata sull'assenza di violenza non solo fisica ma anche strutturale e culturale (1964). In questo articolo, ampliando la riflessione sulla “pace positiva”, riformuliamo il concetto di pace riallacciandoci all'idea di pace-shalom biblica, per concentrarci poi, in un’ottica sistemica, sulle interazioni fra mezzi e fini, fornendo delle esemplificazioni di quanto sostenuto.

All’alba del 24 febbraio 2022 le truppe della Federazione Russa hanno invaso l’Ucraina. Il numero dei morti e dei feriti militari e civili, gli oltre 6,2 milioni di profughi ucraini (di cui più di 5,8 in Europa), i pesanti danni subiti da città, villaggi e infrastrutture, i quantitativi di armi già impiegati o pronti all’uso, sono solo alcuni dei dati che fanno di questa guerra una delle più gravi degli ultimi decenni. Il coinvolgimento diretto e indiretto delle principali potenze nucleari del pianeta, la presenza di milizie mercenarie, l’invio e l'uso di armi vietate dalle convenzioni internazionali come le cosiddette bombe a grappolo, il ricorso a droni armati navali e aerei, munizioni all'uranio impoverito, sanzioni, blocchi navali e sabotaggi, ne fanno anche una guerra “ibrida” particolarmente complessa, capace di produrre effetti imprevedibili su larga scala e nel lungo periodo. Tuttavia, dopo una fase di notevole attenzione mediatica, segnata da una forte polarizzazione, il sostanziale stallo delle operazioni militari, l’assenza di trattative di pace e la prospettiva di un prolungamento indefinito del conflitto rischiano di produrre una “normalizzazione della guerra”. In questo quadro, abbiamo invitato il mondo della ricerca a proporre le proprie analisi della guerra in corso, sulla cui base costruire possibili vie per una pace equa e duratura. Gli autori e le autrici che hanno deciso di partecipare a questo numero monografico della rivista hanno offerto preziosi contributi in questa direzione, partendo da prospettive disciplinari e posizionamenti ideologici diversi. Questa introduzione propone un percorso di lettura trasversale ai diversi lavori, così da metterne in luce le diverse risposte offerte ad alcune domande che riteniamo fondamentali: Quali sono i diversi punti di vista sulla guerra in Ucraina ed esiste una via per arrivare a una loro sintesi e ricomposizione? Come è stato raccontato il conflitto armato in Ucraina e che effetti ha avuto tale narrazione sulla comprensione della guerra e sulle prospettive di pacificazione tra i diversi attori coinvolti? Quali argomenti sono stati utilizzati nel dibattito pubblico per giustificare il ricorso alla forza armata? Perché tra i governi occidentali e in parte dell’opinione pubblica si è affermata la convinzione che il principale (se non l’unico) supporto possibile all’Ucraina invasa fosse di natura militare? Quali sono le cause prossime e quali quelle più profonde della guerra in corso? Tenendo conto delle modalità con cui è stata condotta la guerra e dei suoi effetti, oltre che delle sue cause profonde, quali vie d’uscita nonviolente sono praticabili? Confidiamo che i lavori inclusi in questo numero possano contribuire a una migliore comprensione del conflitto in corso, offrendo al contempo valide indicazioni per la sua conclusione diplomatica e per la costruzione di una pace duratura, nel quadro di un equilibrato ordine mondiale.

Il conflitto in Ucraina sta contribuendo a enfatizzare le logiche sottese alla rappresentazione dei conflitti e alla partecipazione, anche di natura affettiva ed empatica, agli stessi. In particolare, secondo alcune interpretazioni della letteratura, le immagini mediali solleciterebbero l’attenzione degli spettatori verso i conflitti degli Altri, lontani geograficamente o culturalmente. Lo scopo di questo contribuito teorico è di sollecitare interrogativi in merito a tali meccanismi nel complesso ecosistema delle piattaforme online, considerate, a volte ingenuamente, come potenti inneschi per la partecipazione affettiva. Partendo dalle suggestioni classiche in merito al ruolo dei media nei conflitti implicate da approcci come il CNN Effect, si prenderanno in considerazioni le forme di sensible politics attivate dai meccanismi di visibilità delle piattaforme, considerando il conflitto in Ucraina come un laboratorio nel quale leggere scenari in divenire.

Due tipologie di costellazioni di sicurezza sono immaginabili tra le grandi potenze: il classico equilibrio di potere (realismo) o la cooperazione sotto forma di sicurezza collettiva (liberalismo). Questo articolo postula che quest’ultima tipologia abbia maggiori possibilità di prevenire le guerre rispetto alla prima. Il caso di studio che viene sviluppato è il rapporto tra la Russia e l'Occidente dopo il 1989. L'Occidente non è riuscito a integrare su un piano di parità la Russia nell'architettura di sicurezza euro-atlantica dopo la Guerra Fredda. La NATO non solo è rimasta in vita: si è anche ampliata costantemente, con la promessa nel 2008 di includere la Georgia e l'Ucraina. Il risultato è stato il proseguimento del gioco degli equilibri di potere tra Russia e Occidente, conclusosi con lo scoppio della guerra in Ucraina: un esito prevedibile in via teorica e che, in realtà, era già stato previsto da esperti come George Kennan negli anni '90 del secolo scorso.

Il sostegno al governo ucraino nella guerra contro l’invasione russa è giustificato, nell’opinione pubblica italiana (ed europea), con l’esigenza difendere un popolo aggredito: si tracciano paralleli tra la situazione in Ucraina e la lotta partigiana al nazifascismo, e si insiste sul fatto che non è possibile costruire la pace senza ristabilire il diritto violato da parte del governo di Putin. In questo articolo si mette in evidenza che una simile giustificazione presenta due problemi che la rendono difficilmente accettabile. Il primo è il semplicismo: fondandosi su coppie concettuali grossolane (bene/male, aggressori/aggrediti), essa non permette di cogliere la complessità della situazione e, dunque, di proporre soluzioni efficaci. Il secondo è l’incoerenza tra il mezzo che si vuole utilizzare (la guerra) e l’obiettivo che si intende raggiungere (la difesa del popolo ucraino): un’incoerenza dovuta al fatto che la guerra – specie se protratta nel tempo e condotta con armi altamente distruttive - implica necessariamente per il popolo che la subisce un carico di morte e distruzione almeno paragonabile a quello di una dominazione straniera. In conclusione, l’articolo riflette sul dovere degli uomini e delle donne di studio, che non è quello di dichiarare giusta (o inevitabile, o santa) la guerra, ma quello di richiamare le classi dirigenti e le opinioni pubbliche dei paesi democratici alla necessità di far cessare la violenza, di rimettere la soluzione alle trattative e alla ragionevolezza, di provare a gettare ponti nonostante tutto.

Partendo dalla famosa affermazione di papa Paolo VI, “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”, l'articolo sostiene che una strategia credibile ed efficace per raggiungere la pace nella guerra in corso in Ucraina, così come nelle altre 168 guerre che si stanno combattendo oggi nel mondo, debba includere la costruzione di nuove istituzioni, sia nell'arena politica che in quella economica. In questo quadro viene avanzata una proposta concreta per arrivare, in tempi brevi, a un negoziato di pace credibile e attuabile. Lo spirito di questo lavoro è lo stesso cristallizzato nel motto di Erasmo da Rotterdam: “Meglio una pace ingiusta che una guerra giusta”.

Un ampio dibattito sulle determinanti del sostegno delle persone alla globalizzazione ha concluso che è necessario fare leva sugli schemi di welfare per compensare coloro che perdono a causa della globalizzazione. Tuttavia, questa soluzione non è universalmente accettata e potrebbe non essere praticabile in tempi di vincoli di bilancio. In questo paper verifichiamo l'ipotesi che la fiducia nelle istituzioni migliori l'accettazione della globalizzazione da parte delle persone. Utilizziamo i microdati dell'Eurobarometro, dell’European Social Survey e dell’European Quality of Life Survey per studiare il caso del Lussemburgo, un'economia piccola e aperta, fortemente integrata nei mercati internazionali e in cui gli immigrati sono più della metà dei residenti totali. I dati indicano che la fiducia nelle istituzioni, e in particolare in quelle internazionali, aumenta l'accettazione della globalizzazione da parte delle persone. Tuttavia, proprio quando la globalizzazione è considerata come libera circolazione delle persone attraverso le frontiere, la fiducia nelle istituzioni internazionali gioca un ruolo importante. Questi risultati sono robusti per invertire la causalità.

La possibilità che una centrale nucleare operativa sia colpita in un attacco durante operazioni militari è diventata di drammatica attualità nell’odierna crisi ucraina. Gli incidenti ipotizzabili in tale scenario si dividono, a seconda della tipologia di attacco, in incidenti di criticità oppure incidenti convenzionali. I primi potrebbero verificarsi nel caso in cui sistemi ausiliari e di sicurezza del reattore venissero colpiti simultaneamente, provocando un raggiungimento incontrollato della criticità del reattore. I secondi, potrebbero comportare il rilascio di radioattività nell’ambiente a seguito di detonazioni ed incendi in siti della centrale contenenti materiale radioattivo. Spesso ed in modo scorretto negli ultimi mesi, commentando gli eventi accaduti alla centrale di Zaporizhzhia a partire da Marzo 2022, i media hanno paragonato la portata delle conseguenze di tali attacchi a quelle dell’utilizzo di un’arma nucleare tattica. Dal punto di vista della letalità per la popolazione, dei radionuclidi coinvolti, dell’entità della contaminazione dell’ambiente i due eventi sono profondamente diversi. Il presente lavoro, a carattere esplicativo, si propone di studiare l’impatto sull’uomo e sull’ambiente delle conseguenze di un attacco militare alla centrale e quelle della detonazione di un ordigno nucleare tattico della potenza di 10 kt (kiloton).

Il presente contributo intende esaminare i profili generali di conformità all’ordinamento internazionale degli interventi armati realizzati dalle organizzazioni regionali e sub-regionali all’interno del territorio di un proprio Stato membro. A tal fine, sono stati presi in considerazione i trattati istitutivi delle organizzazioni regionali e sub-regionali che fino ad oggi hanno attuato tali tipi di interventi, valutando se e in che misura essi li prevedano. Sono dunque state analizzate le fattispecie di intervento che più frequentemente vengono ad inverarsi nella prassi, verificando se tali tipi di condotte siano conformi a quanto il diritto internazionale prescrive in materia. Infine, sono state offerte anche alcune considerazioni sull’elemento del consenso, da alcuni ritenuto necessario affinché possa essere considerato legittimo un intervento armato di un’organizzazione regionale o sub-regionale sul territorio di un proprio Stato membro.

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