Il Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, in provincia di Catania, rappresenta il simbolo del fallimentare sistema di accoglienza italiano. Immerso nelle campagne della piana di Catania, e lontano dai centri abitati, si trova l’ex Residence degli Aranci, un tempo lussuosa residenza delle famiglie dei militari statunitensi di stanza a Sigonella, oggi il più grande CARA esistente in Italia e in Europa. Istituito repentinamente nell’ambito della cosiddetta “Emergenza Nord Africa”, nel marzo del 2011, il CARA di Mineo è stato, sin dal principio, descritto come il fiore all’occhiello dell’accoglienza all’italiana, un modello da esportare in Europa. Allo stesso tempo è stato definito “ghetto”, “prigione dorata”, “inferno a 5 stelle”, “limbo”. Attualmente ospita circa quattromila richiedenti asilo a fronte di una capacità, dichiarata sin dalla sua apertura, di duemila posti. [...]
“Il valore di una democrazia si misura in base al rispetto e all'attenzione che questa mostra verso gli ultimi” scriveva Nelson Mandela (1995). Chi sono gli ultimi nella nostra società? I senza voce, le categorie che, a causa della loro emarginazione sociale, vengono discriminate e poi da alcuni sfruttate e/o oppresse: migranti, rom, prostitute, persone transessuali e omosessuali, persone diversamente abili. [...]
Il 28 febbraio 2013 veniva chiusa dal governo la cd. “emergenza umanitaria Nord Africa” proclamata nel febbraio del 2011 dal Governo Berlusconi. II Ministro dell’Interno Cancellieri, con una nota del 18 febbraio scorso, comunicava quanto deciso in questo senso dal Tavolo di Coordinamento nazionale, inclusa la scelta di avviare percorsi di uscita dall’emergenza, che si sostanziavano nella concessione di una somma di danaro contante (in media 500 euro) ai singoli, abbandonandoli praticamente a loro stessi. I centri di accoglienza gestiti dalla protezione civile o da altri soggetti venivano chiusi, e molti rifugiati, spinti di fatto sulla strada, erano costretti a subire lo sfruttamento dei caporali per garantirsi la sopravvivenza, mentre altri si trasferivano in diversi paesi europei caratterizzati da sistemi di accoglienza e integrazione più efficaci. Secondo il Governo Monti, anche per ragioni di spending review, il passaggio ad un sistema di accoglienza ordinario avrebbe dovuto realizzarsi attraverso il coordinamento e la programmazione delle diverse fasi da parte di tavoli regionali, che avrebbero dovuto coordinare l’attività dei Prefetti nelle diverse province, con il monitoraggio delle persone presenti, delle risorse impiegate, dei percorsi di inserimento attivati. Diverse regioni, dalla Lombardia alla Sicilia, sono state assenti in questa delicata fase di transizione e i Tavoli regionali per la gestione dell’emergenza si sono riuniti pochissime volte, senza produrre alcun coordinamento concreto. Tutto è rimasto affidato alle decisioni dei singoli Prefetti e dei Questori, mentre le risorse venivano drasticamente tagliate e si accumulavano anche i ritardi nell’erogazione delle somme previste dalle convenzioni stipulate con gli enti gestori. [...]
Un’azione di guerra dove nulla è stato lasciato al caso. Dal nome, Operazione Mare Nostrum, a indicare la piena sovranità su uno specchio d’acqua frontiera Nord-Sud, muro invalicabile per la moltitudine di diseredati in fuga da sanguinosi conflitti e inauditi ecocidi. Il Comando operativo, poi, assegnato al Capo di Stato Maggiore della Marina militare. E i mezzi aeronavali impiegati: cacciabombardieri, elicotteri da combattimento, navi da sbarco, fregate, sommergibili e, a bordo, i reparti d’élite delle forze armate. L’Italia torna a fare la guerra alle migrazioni e ai migranti nel Mediterraneo, sfruttando strumentalmente la tragedia accaduta a poche miglia da Lampedusa il 3 ottobre 2013. Allora morirono 364 tra donne, uomini e bambini senza che l’imponente dispositivo aeronavale nazionale, UE, NATO e extra-NATO che presidia ogni specchio di mare, facesse alcunché per soccorrere i naufraghi. [...]
Le conseguenze politiche scatenate dalla tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013, sono l’esempio di una dinamica tipica di quella “diplomazia delle migrazioni” che si è consolidata a livello europeo ormai da diversi anni. Gli Stati della sponda meridionale d’Europa sono infatti ciclicamente pronti ad invocare l’ennesima emergenza al fine di ottenere supporto materiale e finanziario dall’Unione, scontrandosi invariabilmente con le resistenze dei paesi settentrionali che, ricordando le ricche compensazioni finanziarie ricevute per il ruolo di frontiera esterna d’Europa che essi svolgono, invitano i primi ad un approccio più sistematico e meno emergenziale alla questione del controllo dei confini. [...]
Dopo la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre scorso, nella quale sono morti a poche centinaia di metri dalla costa 366 eritrei in fuga dalle brutali persecuzioni del regime del proprio paese, si è levata un'ondata, spesso più di circostanza che realmente sentita, di sdegno e commozione. Sono seguiti propositi poco chiari e generici impegni a evitare in futuro simili tragedie, ben presto sfociati nelle ormai inevitabili polemiche sull’“emergenza invasione”, sollevate ad arte da coloro che hanno interesse a diffondere disinformazione, per alimentare strumentalmente paure infondate nella popolazione italiana al fine di trarne vantaggio politico. Cercare di fare chiarezza e ristabilire alcune verità in merito è quantomeno doveroso. [...]
Quella che vorremmo raccontare qui è una storia “giovane”, che ha soltanto 22 anni. È la storia dell’immigrazione in Italia, osservata dentro un quadro cronologico segnato da due eventi drammatici e simbolici: i giorni dell’agosto 1991 nel porto di Bari, con il più grande respingimento di immigrati nella storia italiana ed europea, ed il 3 ottobre 2013 davanti a Lampedusa, con centinaia di profughi in fuga da guerre e dittature morti annegati, e con i superstiti denunciati per il reato di clandestinità. [...]
Dopo la guerra del Kosovo del 1998-1999, il processo di ricomposizione sociale e, in definitiva, di ripristino della fiducia è stato sviluppato, a più riprese e sulla base di mandati, profili di impegno ed ambiti di competenza diversi, tanto dai civili quanto dai militari. Tuttavia i compiti specifici di peace building (la costruzione di un processo di pace positiva, basato non solo sull'inibizione della violenza ma soprattutto sull'eradicazione delle radici della violenza, attraverso un lavoro di ri-costruzione del legame e di intervento sulle cause), di confidence building (l'azione di ripristino della fiducia attraverso le linee di separazione tra i contendenti, prima sulle singole comunità etnicamente connotate e quindi stimolando occasioni di condivisione, in modo da ri-collegare il tessuto della relazione, della comunicazione, dell'ascolto, della fiducia e della reciprocità) e, non meno importante, di riconciliazione possibile (che giunge “a valle” di quanto realizzato “a monte” in termini di superamento degli stereotipi, abbattimento del pregiudizio ed umanizzazione del nemico), attengono in maniera sostanzialmente esclusiva ai civili. Infatti, solo il personale civile, purché fornito delle necessarie competenze, può affrontare in modo, al tempo stesso, legittimo, affidabile e credibile, l'azione di inibizione della violenza senza l'uso delle armi, senza il ricorso alla violenza, anzi, specificamente, mediante l'approccio costruttivo proprio della nonviolenza (Lederach 1995). [...]
Nel dicembre 2013, a seguito di una faticosa e “spericolata” – a suo dire – mediazione, il deputato Giulio Marcon è riuscito a inserire nella Legge di Stabilità 2014 un emendamento che “autorizza la spesa di 3 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016, per l'istituzione in via sperimentale di un contingente di corpi civili di pace destinato alla formazione e alla sperimentazione della presenza di 500 giovani volontari da impegnare in azioni di pace non governative nelle aree di conflitto o a rischio di conflitto o nelle aree di emergenza ambientale” (legge 147/2013). Il finanziamento viene agganciato all'art.12 della legge sul servizio civile nazionale, che regola il servizio all’estero, coerentemente con il suo mandato di promuovere la “difesa della Patria con mezzi ed attività non militari” (legge 64/2001). [...]
Il 2014 si apre con una buona notizia: l’apertura della sperimentazione relativa ai cosiddetti “corpi civili di pace”, realizzata attraverso l’approvazione in sede parlamentare di un emendamento presentato dall’onorevole Giulio Marcon durante il dibattito sulla Legge di stabilità 2014, recepito dal Governo dopo una iniziale bocciatura, e quindi trasfuso nel testo della legge così approvata.
Come spesso avviene in questa nostra Italia senza una politica degna di questo nome, si tratta di un risultato alquanto fortunoso. Frutto della caparbietà e dell’intelligenza di un deputato, la novità si iscrive purtroppo in un quadro complessivo desolante, specialmente in relazione al dibattito connesso alle politiche di pace. Del resto, anche l’approvazione della vigente legge sul Servizio civile nazionale è stata, all’epoca, il frutto di un rush di fine legislatura. In questi casi i successi politici parlamentari rischiano di rimanere imbrigliati, in primo luogo, nelle paludi di un più efficace disinteresse politico da parte dell’autorità di governo, che semplicemente fa come se nulla fosse; ed in secondo luogo nelle secche di una difficile applicazione, dovuta all’inevitabile complicata – se non impossibile – applicazione di disposizioni nate senza un sufficiente ausilio tecnico. [...]