Abstract
L’aggressione russa all’Ucraina ha avuto, tra le altre conseguenze, quella di legittimare ancora una volta la guerra e, più in generale, lo strumento militare come mezzo chiave per la risoluzione delle crisi. L’inasprirsi del conflitto ha anche messo in evidenza come rimanga forte nella nostra cultura politica l’idea che pace significhi essenzialmente assenza di guerra. Ma la sola assenza di guerra rischia sempre di assomigliare a quella che Tacito mette in bocca al capo Caledone Calgaco: «dove fanno il deserto, la chiamano pace». Gli studiosi di pace hanno ben chiaro che la pace è un qualcosa di molto più ricco e articolato della mera assenza di guerra. Accanto a una “pace negativa”, caratterizzata da assenza di violenza fisica, troviamo così, grazie a una fortunata intuizione di Johan Galtung, l'idea più ampia di una “pace positiva”, fondata sull'assenza di violenza non solo fisica ma anche strutturale e culturale (1964). In questo articolo, ampliando la riflessione sulla “pace positiva”, riformuliamo il concetto di pace riallacciandoci all'idea di pace-shalom biblica, per concentrarci poi, in un’ottica sistemica, sulle interazioni fra mezzi e fini, fornendo delle esemplificazioni di quanto sostenuto.