Call for papers / Federico Oliveri

Il tema del rigoroso saggio di Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, è l'attuale crisi del sistema economico italiano. Il testo tratta inoltre tre rilevanti fenomeni che sono strettamente intrecciati a tale vicenda, e cioè la realizzazione del mercato mondiale, la “crisi secolare” del modello capitalista, l'integrazione valutaria europea. Oltre che da una introduzione, il volume è composto da cinque capitoli. Il primo e il secondo riguardano la misurazione dell'entità della crisi nelle aree periferiche e in quelle centrali dell'Europa e del mondo. Il terzo capitolo analizza le cause delle crisi cicliche e della “crisi secolare” del modello capitalista. Il quarto descrive le caratteristiche dell'ultima fase della globalizzazione economica ed interpreta le notevoli trasformazioni che essa ha determinato. L'ultimo capitolo prende in esame il passaggio dalla critica al neoliberismo a quella del capitalismo globalizzato e la prospettiva della realizzazione di un nuovo modello di economia e di società. 

Vorrei raccontare una storia che ho ascoltato qualche giorno fa. Fatah (il nome è di fantasia), 8 anni, è una piccola profuga siriana arrivata in Italia ad aprile, da Lesbo, con un viaggio assolutamente sicuro. Un evento eccezionale, perché Fatah e la sua famiglia non avevano i documenti in regola, eppure hanno ottenuto dalle autorità greche e italiane il permesso di partire. È stato possibile per due ragioni: innanzitutto perché erano arrivate a Lesbo prima del 20 marzo, da quel giorno è infatti entrato in vigore l’accordo fra Unione europea e Turchia, che ha inasprito molto le cose. E poi perché hanno viaggiato con papa Francesco insieme ad altri dodici persone, tutte mussulmane. Insomma, una specie di regalo al papa. Arrivata a Roma, Fatah comincia subito a frequentare la scuola e fa molti disegni: tutti caratterizzati da una grande croce nera che rappresentava la sua casa, andata distrutta. Non bisogna essere psicologi per capire il trauma vissuto da questa bambina. Dopo qualche settimana papa Francesco ha invitato a pranzo i profughi che aveva sottratto da Lesbo.

Con tecnologia si intende spesso indicare in modo riduttivo l’insieme delle tecniche, piuttosto che - in linea con l'origine etimologica del termine - l’organizzazione logica, culturale e valoriale delle azioni con cui l’uomo modifica le strutture e i sistemi materiali, compreso il proprio corpo, per favorire il suo insediamento e sostentamento, sulla base delle sue credenze, conoscenze, elaborazioni teoriche, nonché del suo senso dell’esistenza del mondo e della coscienza di sé.

Tecnologia è quindi, oltre che tecnica, conoscenza e sapienza, organizzazione e capacità di produrre: espressione di vita creativa simile all’arte. Per la stessa ragione, la tecnologia (ovvero l’ingegneria, l’architettura, la medicina, la scienza agraria, la veterinaria, ecc.) non è un mezzo per competere con la natura, ma è l’arte di apparecchiare un luogo particolarmente adatto affinché la natura possa esprimervisi nei modi e con le realizzazioni che l’uomo, di volta in volta, ritiene più utili e più belle.

Il 15 maggio è una ricorrenza di particolare importanza per i palestinesi. È il giorno in cui celebrano la Nakba, ovvero la 'catastrofe': tramite questa giornata viene mantenuto vivo il ricordo della cacciata dalle proprie abitazioni di centinaia di migliaia di persone e la mancata fondazione di un proprio Stato autonomo. La data scelta per questa ricorrenza ha un elevato significato simbolico: il 15 maggio 1948 segna, infatti, l'inizio della prima guerra arabo-israeliana, che si concluderà all'inizio del 1949 con la vittoria del neocostituito Stato d'Israele. È anche l'inizio delle lunghe traversie del popolo palestinese che, in circa 70 anni, hanno portato alla drammatica situazione attuale caratterizzata da violazioni sistematiche dei diritti umani e delle risoluzioni delle Nazioni Unite, da un regime di occupazione militare particolarmente opprimente, da continui espropri e dalla colonizzazione abusiva delle terre, da espulsioni individuali e di massa che, nel corso dei decenni, hanno prodotto una quantità tale di profughi che, ad oggi, metà del popolo palestinese vive al di fuori dei cosiddetti "Territori occupati", acquisendo il poco invidiabile status di "popolo della diaspora".

Gli ultimi anni hanno visto spegnersi le speranze dell’eliminazione delle armi nucleari, speranze basate sugli impegni espressi dai governi mondiali nel corso del 2010. Al loro posto si osserva un enorme sviluppo di tali armi da parte di tutti i paesi dotati di questi ordigni, con enormi investimenti finanziari. Questi progetti vengono presentati come “modernizzazione” di armi superate, ma coinvolgono in modo globale tutta la filiera delle armi con l’obiettivo dello sviluppo qualitativo del complesso dei sistemi nucleari offensivi. Nel lavoro si esaminano i programmi dei singoli paesi con armi nucleari, mettendo in evidenza gli aspetti specifici e le caratteristiche generali. Esaminando le conseguenze dei processi di modernizzazione, si sottolinea come essi siano destabilizzanti e offensivi, deteriorino le relazioni fra le grandi potenze, fattore che contribuisce a ulteriore sviluppo militare, e possano indurre modifiche delle dottrine militari da impostazioni di deterrenza (o di “minima deterrenza”) ad ambizioni aggressive con l’opzione di distruzione preventiva delle forze militari avversarie o operazioni militari dirette. Di fronte al rapido esaurirsi del processo negoziale di controllo degli armamenti e all’imponenza dei piani di sviluppo militari, un crescente numero di paesi privi di armi nucleari e organizzazioni non governative hanno deciso di promuovere un bando definitivo e totale delle armi nucleari basato su motivi umanitari, anziché su prospettive di sicurezza. La linea che sta emergendo punta a definire direttamente un trattato formale al di fuori delle procedure dell’ONU, da perseguire senza il coinvolgimento delle potenze nucleari. Vengono presentate le riserve dell’autore su tale strategia, con l’invito a concentrare la pressione e l’impegno dell’opinione pubblica su obiettivi cruciali e urgenti per il controllo delle armi nucleari e il blocco dell’attuale corsa al loro riarmo.

Il mondo rurale sta vivendo processi di cambiamento globale, dovuti alle nuove forme di capitalismo agrario. La nuova agenda per lo sviluppo in America Latina presenta l'articolazione di vecchie e nuove istanze, che danno luogo a nuovi conflitti. Dal neo-strutturalismo, come corrente del pensiero socioeconomico, si potrebbe iniziare un percorso per analizzare la politica di agricoltura familiare sotto diversi aspetti: il ruolo dello Stato, i modelli di sviluppo agrario, il ruolo del mercato, nel quale i diversi attori si incrocerebbero in una arena politica attraversata da dibattiti e ridefinizioni. La chiave di lettura proposta è quella di analizzare il caso dell'Argentina, non tanto come esempio ma come caso specifico, che si sviluppa tuttavia in un quadro e in un linguaggio dello sviluppo che interpella tutta l'America Latina, riconoscendo i nuovi processi di inclusione, così come la continuità delle logiche di esclusione e di subalternizzazione.

Tra la fine del 2010 e l'inizio del 2011 un gruppo di piccoli agricoltori biologici, di attivisti e di lavoratori immigrati lancia dalla Piana di Gioia Tauro la campagna “SOS Rosarno”, ricevendo il sostegno delle reti di economia solidale e l'interesse di varie realtà anti-razziste. L'idea che anima la campagna è semplice, eppure implementa in maniera innovativa una critica radicale al modello dominante di produzione, distribuzione e consumo del cibo, mettendo in atto strategie di trasformazione di tipo strutturale proiettate nel lungo periodo. I promotori della campagna, in sintesi, ritengono che le condizioni indecenti di vita e di lavoro dei braccianti immigrati impiegati nella raccolta degli agrumi, così come le tensioni sociali a sfondo razzista nella Piana, siano dovute alla crisi dell'agrumicultura e, più specificamente, alla crisi di redditività dei piccoli produttori schiacciati dai grossi commercianti, dalla grande distribuzione e dalla competizione internazionale. Se questo fosse vero, la via d'uscita dalle tensioni sociali e razziali, legate a loro volta allo sfruttamento lavorativo e all'impoverimento diffuso, andrebbe cercata innanzitutto in una filiera alternativa e indipendente, costruita ad esempio con i gruppi di acquisto solidale (GAS), attraverso cui vendere direttamente i prodotti ai consumatori più consapevoli. Una simile filiera corta, autonoma dal mercato e dalle sue dinamiche speculative, da un lato può garantire ai produttori un reddito adeguato con cui assumere e retribuire regolarmente i braccianti, oltre che finanziare iniziative solidali; dall'altro lato, può fornire ai consumatori un prodotto di qualità, rispettoso dell'ambiente e del lavoro, a un prezzo accessibile.

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