Call for papers / Federico Oliveri

Da quando, nell’autunno del 2008, è esplosa la bolla speculativa nel settore edilizio ci siamo abituati a sentir parlare di crisi economico- finanziaria, di contrazione degli ordini delle imprese e di conseguenti impatti negativi sul reddito e sull’occupazione, in termini di cassa integrazione o di licenziamenti. A ben guardare, però, vi è un settore industriale che sta superando questa crisi brillantemente: è quello relativo alla produzione destinata alla “difesa” ossia alla sicurezza esteriore. Questo accade perché le industrie belliche basano gran parte dei propri ricavi sugli stanziamenti annuali che gli Stati dedicano al comparto. Tali gruppi possono contare su programmi pluriennali e dal costo elevato, il che incrementa la loro stabilità e permette loro di prevedere i ricavi, su base annua, con buona precisione. Le sole ad incontrare qualche calo negli ultimi anni sono quelle imprese belliche che hanno investito di più nel settore aerospaziale civile, in quanto la domanda in questo campo si è rilevata più oscillante. Per quanto riguarda le armi acquistate dalle forze dell’ordine nazionali, esse sono prodotte da industrie specializzate nelle cosiddette SALW (Small Arms and Light Weapons): in questo articolo ci si occuperà esclusivamente dei gruppi industriali collegati alla produzione di grandi sistemi d’arma. [...]

Invasioni mancate

Nel 1968 la Comunità Europea, allora composta da sei paesi, introdusse la libera circolazione dei lavoratori nello spazio comunitario. Il provvedimento scatenò il timore di un'invasione di emigranti italiani: in fin dei conti – si sosteneva – gli italiani sono poveri, ed è naturale che l'apertura delle frontiere li spingerà a cercare fortuna all'estero. I fatti si incaricarono di smentire quelle paure: nei primi anni '70, i flussi di italiani nei paesi europei si attestarono su valori molto inferiori a quelli del decennio precedente, fino a scomparire quasi del tutto.
Nel 1989, con la caduta dei regimi dell'ex blocco sovietico, le cancellerie europee si prepararono a grandi esodi di migranti: i differenziali di reddito tra i paesi orientali e occidentali, nonché i conflitti nelle società in transizione, lasciavano intravedere “maree umane” in arrivo. Anche in quel caso, la realtà fu però assai diversa. Vi fu effettivamente un incremento consistente delle migrazioni dall'Est (tra il 1990 e il 1994 i paesi a economia di mercato registrarono un milione di arrivi annui), ma i numeri furono molto più contenuti del previsto. Inoltre, a partire dal 1994 i flussi migratori di ingresso in molti paesi orientali cominciarono a prevalere su quelli di uscita.
Nel 1997, la cosiddetta “crisi delle piramidi finanziarie” innescò in Albania una vera e propria guerra civile: sulle coste della Puglia, nell'arco di pochi mesi (tra il 1 Marzo e il 30 Giugno) sbarcarono 16.964 albanesi. Stando ai resoconti dei giornali, tutto lasciava intravedere un vero e proprio “esodo di massa”. Oggi sappiamo che l'allarme era del tutto infondato: dal piccolo paese balcanico sono arrivati flussi indubbiamente consistenti (tra gli immigrati presenti in Italia la collettività albanese è la più numerosa dopo quella rumena), ma gli arrivi si sono ripartiti nell'arco di quindici-venti anni, per lo più seguendo i sentieri delle opportunità occupazionali offerte dal mercato del lavoro, dunque con una dinamica tipica di tutte le migrazioni “ordinarie”. [...]

Davanti all’evidente difficoltà di argomentare razionalmente il fatto che la crisi in Libia non sia riuscita a smuovere i pur attenti movimenti pacifisti, occorre chiedersi se per caso la spiegazione non possa essere trovata in alcuni dati generali di contesto. Viene innanzitutto da chiedersi: se anche i pacifisti fossero liberi di intervenire, che cosa potrebbero fare contro un despota accettato, fino a poco tempo fa, in Europa occidentale in quanto funzionale alle proprie politiche energetiche e migratorie, arricchitosi a dismisura con quanto ha fatto mancare ai suoi concittadini e soprattutto alle migliaia di lavoratori immigrati impiegati nel settore petrolifero, ben armato (dalle stesse potenze euro-occidentali) e con la possibilità di arruolare mercenari da utilizzare nelle repressioni delle rivolte spontanee? [...]

C'è così tanta ipocrisia e un'analisi così confusa su ciò che sta accadendo in Libia che difficilmente si sa da dove cominciare. L'aspetto più trascurato della situazione è la profonda divisione nel mondo rimasto. Molti hanno lasciato gli stati dell'America Latina, e in particolare il Venezuela, sono increduli nel loro sostegno al colonnello Gheddafi. Ma i portavoce del mondo lasciato in Medio Oriente, in Asia, in Africa, in Europa e in realtà in Nord America, decisamente non sono d'accordo.
L'analisi di Hugo Chavez sembra concentrarsi principalmente, anzi esclusivamente, sul fatto che gli Stati Uniti e l'Europa occidentale hanno lanciato minacce e condanne al regime di Gheddafi. Gheddafi, Chavez e alcuni altri insistono sul fatto che il mondo occidentale voglia invadere la Libia e "rubare" il petrolio della Libia. L'intera analisi perde completamente ciò che è successo e riflette male sul giudizio di Chavez - e in effetti sulla sua reputazione con il resto del mondo. [...]

“In questi giorni mi domando con crescente angoscia: perché sinistre, movimenti, sindacati, centri sociali, pacifisti e società civile variamente attiva sembrano più che altro indifferenti a quel che sta avvenendo in Libia?”. Così inizia un articolo di Pierluigi Sullo pubblicato il 7 marzo su Democrazia Km Zero. Già Walter Veltroni, secondo quanto riportato dal Sole24Ore del giorno prima, si era chiesto polemicamente come mai nessuno scendesse in piazza al fianco dei patrioti libici: “Perché era così facile mobilitare giustamente milioni di persone contro Bush e gli americani per la guerra in Iraq e nessuno prova a riempire le piazze contro il dittatore Gheddafi?” [...]

Il mondo arabo è in uno stato di agitazione. Solo poche settimane fa un giovane tunisino ha acceso una partita che ha dato fuoco al mondo arabo. L'auto-immolazione di un giovane disperato nella città di Sidi Bouzid non solo ha portato alla caduta del presidente Ben Ali, ma è anche riuscito a ispirare e mobilitare centinaia di migliaia in tutto il Nord Africa e il Medio Oriente in quello che ora è noto come "Primavera araba". La ricerca è per la libertà e la dignità, l'influenza è Internet, e i mezzi sono rivolte pacifiche e auto-immolazione. Mentre le rivolte si sono ora diffuse in Egitto, Iran, Bahrain e Libia, anche dal tranquillo Marocco arrivano segnali di disordini.
La richiesta di cambiamenti è iniziata con la creazione su Facebook del movimento online per "Freedom and Democracy Now" che chiedeva una manifestazione nazionale che si tenesse il 20 febbraio 2011 in diverse città in tutto il paese. Allo stesso tempo, su You Tube è stato pubblicato un video che descrive con cura varie questioni che riguardano il Marocco - analfabetismo diffuso, emarginazione, povertà e corruzione - e chiede un cambiamento del governo e delle riforme costituzionali. Molto rapidamente, diversi individui e gruppi si sono impegnati a diffondere il messaggio invitando le persone a manifestare: una chiamata ascoltata da migliaia di marocchini. È stato anche creato un contromovimento che chiedeva di non dimostrare "per amore del re", avviando una feroce cyberwar sul web. [...]

È vero che l'uomo ha camminato sulla Luna e che ha mandato satelliti ad orbitare attorno alla Terra. È vero che ha scattato foto del nostro pianeta da tutte le angolazioni: abbiamo visto la Terra sorgere all'orizzonte lunare, l'abbiamo vista immersa a metà nel buio della notte e l'abbiamo vista risplendere in tutta la sua maestosa circolarità (o quasi). È anche vero che queste osservazioni ci hanno dato una comprensione più profonda di molti processi del sistema-terra, ad esempio del clima, chiarendo dove si formano le nuvole e come si muovono, che c'entra l'irradiazione con i gas serra, cos'è il buco dell'ozono. Ma è anche vero che, mentre alcuni scienziati come l’astronomo Carl Sagan hanno da tempo inaugurato l'era della caccia all'intelligenza extraterrestre, vi è una parte della superficie terrestre che giace sotto gli occhi di tutti ma che è rimasta stranamente al margine dell'attenzione di chi si occupa di processi geofisici globali. Sono gli oceani che, come sappiamo, coprono il 70% del globo e fanno della terra il “pianeta blu”.
Gli oceani influenzano in maniera decisiva l'andamento del clima, come tengono a rammentarci i climatologi. Acque che sono l'habitat di innumerevoli specie animali e vegetali, come aggiungono i biologi marini. Acque che racchiudono preziosissime risorse minerarie, come sanno i geologi. E, infine, acque che subiscono le ricadute provocate dalla presenza sempre più “pesante” della specie umana sul pianeta, come rilevano gli ambientalisti. [...]

È stata pubblicata di recente la traduzione italiana del libro del medico australiano Helen Caldicott dedicato alla questione del nucleare, uscito nel 2006 presso la Newton Press di New York. La Caldicott è diventata una delle maggiori attiviste antinucleari del suo paese e del mondo dopo aver esercitato per alcuni anni la professione di pediatra, esperienza che si è rivelata fondamentale per il suo impegno civile a partire dall’esame di diversi bambini esposti agli effetti di Cernobyl.
In Italia la grande stampa sostiene più o meno apertamente la scelta dell’attuale governo di superare il blocco del ricorso al nucleare come forma di approvvigionamento energetico, blocco sancito dal referendum abrogativo dell’8-9 novembre 1987. Anche per questa ragione il libro della Caldicott si rivela prezioso e da diffondere: per rompere l’accerchiamento mediatico e in parte anche accademico intorno alla questione. Il libro si compone di dieci ben documentati capitoli, che sviluppano la tesi centrale dell’autrice: la sostanziale falsità dei principali argomenti indirizzati ad un’opinione pubblica preoccupata dalla prospettiva dell’esaurimento e dall’impatto ambientale delle fonti energetiche tradizionali di natura fossile. Ci si impegna dunque a smentire l’interessata affermazione che questa modalità di produrre energia sia efficiente e sicura e non produca gas-serra o emissioni nocive. [...]

Il saccheggio è un libro interessante e coraggioso, che affronta i temi del colonialismo e dell’imperialismo contemporanei dal punto di vista del ruolo che il diritto svolge in questi processi. Il dato di partenza che guida la ricerca è delineato con grande nettezza: “il diritto è stato ed è tuttora utilizzato per amministrare, sanzionare e soprattutto giustificare la conquista e il saccheggio occidentale”. Proprio questo continuo e mai interrotto saccheggio – già magistralmente descritto da Edoardo Galeano nel suo libro Le vene aperte dell'America Latina – è alla base della massiccia disuguaglianza globale attuale. Questo saccheggio è stato giustificato attraverso la potente retorica della legalità: ma un simile “progetto di dominazione avvolto nella retorica della legalità non può che costruire una poderosa costruzione di egemonia, persuadendo le vittime della benevolenza dei predoni”. In questo modo, “senza alcun pudore si finge di esportare legalità in Afghanistan e in Iraq, mentre se ne esporta soltanto un regime, complice del saccheggio delle multinazionali, legittimato dalla legge del più forte pure nei suoi episodi più cruenti (l’anno 20101 si è inaugurato con la notizia dell’assoluzione, basata su un formalismo processuale, ad opera di una Corte federale statunitense, dei mercenari della Blackwaters responsabili del massacro di 17 civili iracheni)”. [...]

Lo scorso settembre l'evento principale riguardo al conflitto israelo-palestinese è stato la ripresa dei cosiddetti negoziati di pace, sotto gli auspici del presidente Obama. Un evento che ha avuto le prime pagine della stampa italiana e internazionale, e che continua a essere seguito con grande attenzione. Pochissima invece l'attenzione per un episodio minore, ma non per questo irrilevante, che ha a che vedere con il boicottaggio dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi, e riguarda in particolare l'insediamento di Ariel. Si tratta di uno dei più grossi e popolati insediamenti della zona, progettato nel 1978 con l'obiettivo di penetrare profondamente nella Cisgiordania, separando il nord dal centro. La cittadina conta oltre 17.000 abitanti e dista circa 16,5 km dalla “Linea verde”, ossia la linea di demarcazione fissata dagli accordi d'armistizio del 1949 fra Israele e i Paesi arabi confinanti (Libano, Siria, Giordania ed Egitto) e che separa il territorio israeliano dai territori occupati dopo la Guerra dei sei giorni del 1967. Il muro che divide l'insediamento dal resto della Cisgiordania è lungo 114 km e contiene al suo interno 120.000 dunum di terra (corrispondenti a circa 12.000 ettari) espropriata ai palestinesi. [...]

 

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