Era il 2004, l’anno del nuovo Trattato Costituzionale europeo poi bocciato dai referendum francese ed olandese e sostituito dall’attuale Trattato di Lisbona, quando Jeremy Rifkin pubblicava Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano. L’autore contestava la “narrazione neo- conservatrice” che identificava la modernità occidentale col trionfo dell’homo oeconomicus, del libero mercato, dello Stato nazionale e dello sfruttamento tecno-scientifico della natura e che vedeva nell’affermazione della superpotenza statunitense, principale depositaria di quei valori, la “fine della storia”. Rifkin invitava viceversa a prendere atto del crescente divario politico-culturale interno al “mondo occidentale”, destinato a riaprire i giochi della storia: mentre il “sogno americano”, fondato sulla crescita illimitata, sulla competizione interpersonale, sull’accumulazione privata di ricchezza, sulla superiorità militare e su una politica estera di potenza, era destinato alla lunga al fallimento, il futuro apparteneva al “sogno europeo” fondato sullo sviluppo sostenibile, sui diritti sociali e sui beni relazionali, sulla responsabilità sociale condivisa e sulla pace, garantita da una politica estera orientata al consenso multilaterale e all’aiuto pubblico allo sviluppo. [...]
Una rivista che si occupa di “scienze e pace” può proporre facilmente ai suoi lettori, tra le recensioni, libri che trattino in prospettiva interdisciplinare i diversi aspetti della violenza e della guerra. Difficoltà possono sorgere, però, quando l’argomento sia la pace stessa: come da tempo abbiamo imparato, non ne esiste infatti una definizione univoca. Abbiamo forse raggiunto un certo accordo su definizioni “in negativo”, ossia su che cosa non vada considerato come pace: essa non può essere ridotta al mero contrario della guerra e della violenza armata, né può essere circoscritta ad una situazione stazionaria, ovvero alla progressiva eliminazione di tutti i conflitti. Una proposta di definizione della pace “in positivo” può passare attraverso il riconoscimento della centralità della vita: in questo senso, essa può essere definita come una continua tensione per affermare pienamente il fenomeno tipico del nostro pianeta. Prendendo come riferimento gli esseri umani, la pace allude così alla possibilità di costruire relazioni di uguaglianza tra le persone, i gruppi e i popoli, fondate sul rispetto dei diritti di ogni vivente. In questa forma, la pace deve tenere conto della complessità e dell’indivisibilità dei diritti, che si richiamano reciprocamente tra loro, e delle condizioni che ne consentono l’effettivo esercizio da parte di tutti. Così, ad esempio, il diritto fondamentale alla salute implica quello ad un’adeguata alimentazione, incluso il libero accesso a beni essenziali come l’aria e l’acqua, così come il diritto al reddito, al lavoro e ad un’abitazione adeguata alle esigenze individuali e familiari. Da qui la pertinenza di affrontare in questa sede il tema della “medicalizzazione” e dei suoi effetti negativi sull’autonomia e sul benessere personali, oltre che sull’insieme delle relazioni sociali. [...]
Non si può non cominciare la recensione di questo libro senza commentare la traduzione italiana del titolo e del sottotitolo. La prima versione inglese suona infatti The spirit level: why more equal societies almost always do better, che si potrebbe tradurre letteralmente La livella: perché le società con maggiore uguaglianza quasi sempre risultano migliori. La metafora concreta della livella a bolla (quella resa celebre da Totò), da strumento di misura dell'uguaglianza è diventata nella versione italiana una metafisica “misura dell'anima”. Così come l'ottimismo implicito nella relazione tra uguaglianza e benessere ha lasciato il posto ad una pessimistica considerazione sulle diseguaglianze che creano infelicità. Che gli autori volessero mettere l’accento sul fattore positivo costituito dall’uguaglianza è confermato da ulteriori sottotitoli che il saggio ha ricevuto in due successive edizioni inglesi, che suonano rispettivamente Why greater equality makes societies stronger, ossia Perché più uguaglianza rende le società più forti, e Why Equality is Better for Everyone, ossia Perché l’uguaglianza è meglio per tutti. [...]
Intercultura, nuovi razzismi e migrazioni, il volume collettivo curato da Ilaria Possenti per la Plus – Pisa University Press, non è il solito libro che dipinge le magnifiche sorti della società inter- o multi-culturale. Innanzitutto, perché distingue chiaramente tra i due concetti, operando una precisa scelta di campo tra interculturalismo e multiculturalismo. Come scrive in modo limpido la curatrice, il volume intende prendere le distanze da una diffusa tendenza multiculturalista per “lavorare sulla comprensione e l’elaborazione di relazioni (inter), più che identificare differenze separate di cui auspicare o temere la coesistenza (multi)”. E infatti, nel volume, il saggio di Scannavini si sofferma sulle dinamiche di creolizzazione, meticciato e ibridazione, proprio perché sono al centro della storia delle migrazioni molto più di una supposta cristallizzazione di identità diverse. [...]
“Malgrado gli auspici dell'Amministrazione di Obama e della maggior parte degli americani – inclusi molti ebrei americani – Israele non consentirà ai palestinesi un loro stato in Cisgiordania e a Gaza che sia sostenibile. Per quanto possa dispiacere, la soluzione dei due stati è ormai fantasia. Invece i territori occupati saranno incorporati in una “Grande Israele” che sarà uno stato di apartheid con un grande somiglianza con il Sudafrica governato dai bianchi. Tuttavia, uno stato ebraico con un regime di apartheid non è sostenibile nel lungo periodo. Alla fine, diventerà uno stato democratico bi-nazionale, la cui politica sarà dominata dai suoi cittadini palestinesi. In altre parole, cesserà di essere uno stato ebraico, e questo significa la fine del sogno sionista”.
È ciò che il 29 aprile scorso, in una conferenza dal titolo “Il futuro della Palestina: gli ebrei giusti contro i nuovi afrikaners”, ha sostenuto John J. Mearsheimer, professore alla Chicago University, teorico di politica internazionale di impostazione realista e studioso di grande prestigio, sia nel mondo accademico americano che in quello internazionale. Mearsheimer non fa una scelta politica. È anche lui convinto, come molti, che la soluzione dei due stati sia la migliore. La sua è una constatazione, la presa d'atto di quella che è la situazione sul terreno, che piaccia o no. [...]
Giovedì 8 Aprile 2010 i presidenti Barack Obama e Dmitri Medvedev hanno firmato il nuovo trattato sulla riduzione delle armi nucleari strategiche, il cosiddetto New START. Due giorni prima, il 6 Aprile, veniva resa pubblica la Nuclear Posture Review (NPR), un documento integrato nella Quadrennial Defence Review (QDR), che definisce la politica nucleare e la strategia globale degli Stati Uniti per gli anni a venire e che può essere considerato un importante addendum al nuovo trattato.
La discussione attualmente in atto nella comunità degli studiosi di problemi di disarmo e controllo degli armamenti è decisamente ricca di pareri, anche assai contrastanti. Personalmente sono convinto che l’NPR 2010 apra alcuni significativi spiragli di speranza e proverò a spiegare brevemente il perché. [...]
Lo scorso 8 aprile, nella sala spagnola del castello di Praga, i presidenti russo e americano, Dmitry Medvedev e Barack Obama, hanno solennemente firmato il nuovo trattato Treaty between the United States of America and the Russian Federation on measures for further reduction and limitation of strategic offensive arms, comunemente chiamato New START. Il nuovo accordo ha per oggetto la riduzione delle armi nucleari offensive dei due paesi, come concordato dai due presidenti nel loro incontro di Londra, il primo aprile dello scorso anno. Entrambi hanno seguito con attenzione il negoziato che ha condotto al New START, anche con numerosi contatti telefonici. [...]
L’equazione “crescita economica uguale progresso” che ci accompagna ormai dal secondo dopoguerra non è stata scalfita neanche dalla crisi economica e finanziaria che stiamo attraversando. Così, nel corso dell’ultima riunione, i ministri economici dei paesi dell’OCSE hanno ribadito come tutte le manovre di finanza pubblica e di consolidamento fiscale di medio termine dovranno essere attuate in modo da non mettere a rischio la crescita economica. La riduzione dei tassi di crescita nelle economie più ricche continua ad essere vista come una sciagura dalla quale uscire nel più breve tempo possibile. Vi sono due assunti fondamentali alla base di questa convinzione. Il primo è che la crescita fa funzionare bene il sistema economico, agendo come un “lubrificante” che evita intoppi e tensioni sociali. Il secondo è che la crescita economica porta con sé un continuo aumento del benessere. [...]
Il clima cambia (e non solo quello atmosferico)
È certamente tempo di cambiamenti del clima, di quello atmosferico come di quello politico mondiale. Lo conferma la Conferenza Mondiale dei Popoli sui Cambiamenti Climatici e Diritti della Madre Terra, svoltasi a Cochabamba in Bolivia, dal 19 al 22 aprile scorso. Convocata dal presidente Evo Morales in risposta al deludente vertice di Copenaghen, la conferenza di Cochabamba costituisce una tappa verso il nuovo vertice Onu sul clima, programmato per il prossimo dicembre in Messico, a Cancun: la città più artificiale che si possa immaginare, programmata al computer fin dalla scelta del luogo ove farla sorgere, che conta il minor numero annuo di giorni di pioggia per poter accogliere il maggior numero possibile di turisti statunitensi. Un luogo artificiale, ideale per vertici surreali, diversamente da Cochabamba che nel 2000 è stata teatro della famosa “guerra dell’acqua”.
L’iniziativa politica e diplomatica planetaria sta ormai sfuggendo al controllo dei paesi più industrializzati e inquinanti: è un segno di mutamento e di speranza, anche se non basta questo a risolvere tutto. Ma torniamo al clima atmosferico, e tentiamo di fare un primo bilancio della Conferenza dei Popoli, iniziando dalle presenze. [...]
Molti esperti del settore, alcuni dei quali non certo disinteressati, dicono che per l'Iran raggiungere la bomba atomica non è un problema: è solo una questione di tempo. Gli ottimisti parlano di oltre dieci anni, i pessimisti di otto o addirittura molto meno. Il tema è di quelli che catalizzano l’attenzione mediatica, e non solo: le recenti sanzioni votate alle Nazioni Unite, al di là della loro efficacia dissuasiva, ne sono un chiaro segnale. Molti dimenticano però che la Repubblica Islamica detiene anche tecnologie militari di tipo strategico che vanno ben oltre il livello base, tecnologie che sono il risultato di decenni di investimenti nella ricerca militare promossi dal governo di Teheran in risposta all'isolamento e all'embargo successivi alla rivoluzione del 1979.
Negli ultimi vent'anni l'Iran è stato in grado di raggiungere una buona autosufficienza in molti settori armieri. Lo ha fatto attingendo alle tecnologie che via via è riuscito ad acquistare, ma soprattutto tramite un imponente programma nazionale di reverse engineering, ossia di ricostruzione dei progetti a partire dalla copia dal prodotto finito, partito proprio dalla necessità di rimettere in funzione le armi acquistate in Occidente ai tempi dello Shah. [...]