L'obiettivo di questo saggio è analizzare l'evoluzione della cultura politica della sinistra moderata negli ultimi decenni. Il punto di partenza è l'attenzione ai valori e alle strategie che hanno influenzato la politica interna ed estera di questa sinistra nella fase della “modernità”, ovvero durante la Guerra Fredda. Johan Galtung è stato il leader intellettuale dell'ala “costruttivista” della sociologia politica, sottolineando valori come la pace, la non violenza, la democrazia partecipativa, lo stato sociale. Dopo il 1989, la sinistra ha parzialmente modificato le sue strategie politiche. L'Occidente stava vivendo un processo di transizione dalle società moderne a quelle postmoderne. La sinistra moderata ha scelto il multiculturalismo come valore fondamentale nei processi decisionali relativi ai flussi migratori e alla gestione dei conflitti tra le diverse nazioni. L'ideologia politicamente corretta è diventata la nuova ancora della sinistra nel tempo della postmodernità e ha svolto il ruolo di cultura politica prevalente (ma non dominante) in Occidente. Questo saggio intende valutare se le strategie politiche della sinistra costruttivista e di quella "politicamente corretta" siano compatibili tra loro, partendo dagli insegnamenti di Johan Galtung.

Questo articolo delinea la vita intellettuale di Galtung sullo sfondo della nascita e dello sviluppo del pensiero non violento nella società occidentale. La sua straordinaria capacità di proporre idee decisive per una teoria della pace e della risoluzione non violenta dei conflitti ha aperto la strada al pensiero strutturale non violento. Tuttavia, dopo il 1989 non ha portato a termine le sue innovazioni, optando invece per una visione eclettica. Ciononostante, è stato in grado di prevedere la caduta di ciascuna delle due superpotenze che dominavano il mondo al suo tempo.

"Il passato deve essere preso sul serio: è troppo serio per essere lasciato agli storici". Così si è espresso lo studioso di pace Johan Galtung, perché capiva come gli intellettuali occidentali "siano addestrati ad astenersi dalla critica, dal costruttivismo e dall'azione, a meno che non si muovano nel campo di scienze applicate certificate come tali". Per gli storici ciò significa scrivere come se fossero imparziali e disinteressati. Non è consentita alcuna agenda socio-politica. Occorre rimanere neutrali (su un treno in movimento). Gli studi sulla pace, tuttavia, come concepiti da Galtung, sono una "scienza sociale applicata, con un orientamento valoriale esplicito - contro la violenza". "Gli studi critici sulla pace prendono posizioni esplicite". Gli studiosi della pace si preoccupano. Uno storico della pace, quindi, è colui che scrive con l'intento trasparente di ridurre la violenza. In questo senso, uno storico può essere un operatore di pace, comprendendo che una pace perpetua è fatta di tante piccole paci, comprese le piccole paci della cultura. [...].

[...] Galtung, di formazione matematico e sociologo, non è stato solo un teorico di grande creatività, ma ha anche messo in pratica le sue idee, come provano alcuni suoi interventi capaci di sbloccare negoziati fra Stati fermi da anni. Ho avuto il privilegio di conoscere Johan abbastanza bene durante il periodo in cui, su mio invito, fu alla “Cesare Alfieri” per un ciclo di incontri dedicati, ovviamente, alla ricerca irenologica. Avevo pubblicato nel 1978 Natura e orientamenti delle ricerche sulla pace cui aveva contribuito anche Norberto Bobbio e mi interessava conoscere il suo giudizio. Ciò che colpiva era l’entusiasmo che trasmetteva ai Suoi interlocutori anche se, talora, discuteva in una lingua non sua, l’italiano, appunto. Le modalità del suo insegnamento rivelavano uno spirito autenticamente missionario. [...]

A differenza del giornalismo definito come “giornalismo di guerra”, il “giornalismo di pace” ha un compito delicato e cruciale: andare oltre, trascendere – in linea con il quadro teorico di Galtung – le ragioni, le dinamiche, i concetti e le fonti strettamente legati a una prospettiva orientata alla guerra, e gettare le basi per meccanismi di comprensione e la costruzione di scenari di pace solidi. L'obiettivo di questo lavoro è quello di evidenziare gli elementi essenziali del paradigma del giornalismo di pace, cogliendone i contenuti innovativi e le questioni critiche emerse nel dibattito scientifico, confrontandoli con alcuni dei temi centrali della riflessione sui media e sul giornalismo, nonché con le tendenze nell'analisi testuale e nell'analisi critica del discorso, al fine di contribuire a una valutazione delle prospettive e della rilevanza della proposta di Galtung.

Questo articolo applica la teoria del "Triangolo del conflitto" di Johan Galtung - tradizionalmente utilizzata per analizzare i conflitti statali e inter-gruppo - al campo poco esplorato della criminalità organizzata, con un'attenzione particolare alle dinamiche di genere. Concentrandosi sul Clan Ascione, un gruppo di Camorra in Italia, esamina i ruoli spesso trascurati che le donne svolgono nel perpetuare e nel contrastare la violenza all'interno delle organizzazioni criminali. Attraverso un'analisi qualitativa di fonti secondarie, lo studio mette in luce figure come Antonella Madonna e la madre di Natale Dantese, rivelando come le donne, tipicamente percepite come marginali, siano centrali per le operazioni e le strutture di potere del clan. La ricerca illustra come norme culturali, disuguaglianze strutturali e violenza diretta interagiscano per sostenere i sistemi patriarcali della Camorra. In particolare, ripercorre la trasformazione di Madonna da partecipante a leader e, infine, a collaboratrice con le forze dell'ordine, mostrando la complessa relazione tra genere, potere e resistenza. Estendendo il quadro concettuale di Galtung al micro-livello della criminalità organizzata, lo studio rivela la sua più ampia applicabilità nella comprensione della violenza di genere. Combinando le intuizioni provenienti dalle scienze per la pace e dall'antropologia politica, offre un'analisi sfumata di come il genere funzioni sia come forza stabilizzante che destabilizzante nelle organizzazioni criminali, sollecitando la ricerca futura a esplorare ulteriormente queste intersezioni all'interno delle entità violente non statali.

La violenza in Africa è stata spesso analizzata attraverso le lenti sociologiche, economiche, politiche o delle relazioni internazionali, mentre raramente è stata analizzata attraverso la concettualizzazione della violenza strutturale di Johan Galtung. Tuttavia, Galtung fornisce una comprensione più sfumata delle megatendenze di quella regione. Questo articolo esplora la rilevanza della sua teoria, in particolare nel Sahel, attingendo dal suo lavoro del 1969, Violence, Peace, and Peace Research. La violenza strutturale si concentra su fattori sistemici e istituzionali - come la disuguaglianza, la dominazione etnica, la governance debole e la mancanza dello Stato di diritto - che alimentano i disordini al di là della violenza fisica diretta. Nel Sahel, queste condizioni strutturali hanno portato a instabilità politica, disordini sociali, colpi di Stato, vulnerabilità climatica, disoccupazione e sofferenza diffusa. La privazione e l'emarginazione diventano terreno fertile per i conflitti. Il presente lavoro sostiene che una leadership politica deviata e uno scarso controllo delle armi sono sia il prodotto che il motore di questi problemi strutturali radicati. Esamina inoltre come il cambiamento climatico, in quanto “moltiplicatore di violenza”, aggravi l'instabilità e comprometta le strategie di adattamento. Sebbene il lavoro di Galtung presenti dei limiti, soprattutto se utilizzato in modo isolato, offre una prospettiva preziosa per comprendere la violenza radicata nelle eredità coloniali, nella disuguaglianza e nella disfunzione politica. Le violenze strutturale, diretta e culturale sono interconnesse e richiedono approcci olistici per affrontarle nei vari contesti geopolitici in cui si manifestano.

Sebbene Galtung sia noto soprattutto per le sue ricerche sulla pace e sulle strategie di risoluzione dei conflitti, la sua opera affronta approfonditamente anche il tema della violenza. In particolare, gli va riconosciuto il merito di aver ampliato la comprensione della violenza oltre la mera aggressione fisica, identificandone le dimensioni culturali e strutturali. La sua analisi della violenza strutturale è stata particolarmente significativa, contribuendo al lavoro di studiosi di diverse discipline nell’esame delle disuguaglianze sistemiche. Tuttavia, il concetto di violenza strutturale elaborato da Galtung è stato anche oggetto di critiche. In sintesi, la letteratura suggerisce che esso risulti troppo vago, facendo sì che i rapporti tra potere, disuguaglianza e danno tendano a confondersi. Questo articolo intende affrontare tali limiti, in particolare chiarendo le caratteristiche della violenza strutturale e la sua connessione con le relazioni di potere. Ciò consentirà di stabilire un legame tra la violenza strutturale e il concetto foucaultiano di stati di dominazione - vale a dire, specifiche configurazioni di relazioni di potere contrassegnate dalla mancanza di libertà. Queste precisazioni permetteranno una rivisitazione del triangolo della violenza di Galtung, con particolare attenzione alla relazione tra violenza strutturale e violenza diretta.

Johan Galtung occupa una posizione unica e fondamentale nel campo degli studi sulla pace e sui conflitti. In oltre sessant'anni, il suo lavoro ha plasmato la ricerca sulla pace sia come disciplina accademica che come forma di prassi. I suoi contributi spaziano dalla mediazione dei conflitti alle relazioni internazionali, dalla sociologia all'analisi culturale, ma lo studioso è forse meglio conosciuto per aver elaborato due modelli concettuali che hanno avuto ampia circolazione: la distinzione tra pace positiva e pace negativa e il cosiddetto "triangolo della violenza". Questi concetti non si sono limitati a introdurre una nuova terminologia, ma hanno ridefinito in profondità il modo in cui studiosi/e e professionisti/e comprendono le cause dei conflitti, i sistemi di dominio e le prospettive di una pace sostenibile. Questo numero di Scienza e Pace è dedicato a una revisione critica e a un'applicazione creativa delle idee di Galtung, in particolare come risposta alle sfide contemporanee. In un mondo caratterizzato da forme di violenza sempre più complesse, che vanno dalla criminalità organizzata e dall'oppressione di genere all'instabilità climatica e alla polarizzazione culturale, è fondamentale ripensare gli strumenti concettuali che utilizziamo per analizzare e trasformare queste realtà. Sebbene i modelli teorici di Galtung siano stati oggetto di critiche, essi rimangono comunque estremamente rilevanti. I contributi presenti in questo numero esplorano la sua eredità attraverso la messa a punto teorica, l'analisi empirica e il dialogo interdisciplinare, offrendo nuove prospettive su come la ricerca sulla pace possa rispondere alle problematiche più urgenti di oggi.

L’articolo analizza l’impatto della guerra in Ucraina sulla tenuta del regime pattizio delle Convenzioni di Ottawa e di Oslo. Il contributo esamina il recesso dal quadro normativo da parte della Finlandia, della Polonia e delle Repubbliche Baltiche avvenuto tra il 2024 e il 2025. Esso è stato motivato da esigenze strategiche e dal principio di autodifesa, in risposta alla minaccia posta dalla Federazione Russa. Il contributo ricostruisce le basi giuridiche di queste decisioni, mettendo in luce le implicazioni normative e le tensioni tra la sovranità nazionale e gli obblighi internazionali. L’articolo esplora inoltre il ruolo dell’industria militare e la produzione globale di mine antipersona. Nonostante la predominanza di compagnie asiatiche, l’utilizzo diffuso di questo tipo di armi nel conflitto russo-ucraino e la fornitura statunitense all’Ucraina rappresentano due pericolosi precedenti che rischiano di compromettere la legittimità del diritto internazionale umanitario e il processo di universalizzazione dei trattati sulle ICW.

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