Dopo aver svelato il terreno di alcuni pregiudizi teorici che pesano sullo studio dei processi comunicativi, questo articolo esamina criticamente e in dettaglio i principali modelli di comunicazione e le relative teorie, proponendo una distinzione tra due diversi tipi di modelli: monologico e dialogico. Particolare attenzione è rivolta a quest'ultimo, in quanto scoraggiano un uso utilitaristico, manipolatorio ed etnocentrico della comunicazione, soddisfacendo così i requisiti etici della comunicazione nonviolenta e gli obiettivi della comunicazione interculturale che mirano allo sviluppo di identità complesse e "plurali", capace di integrare la diversità in modo creativo.
Squadra verso la morte è l’opera teatrale più nota, anche internazionalmente, del drammaturgo e saggista spagnolo Alfonso Sastre, un autore prolifico, poliedrico e longevo che nel suo paese ha vissuto una situazione paradossale per un uomo di teatro. Riconosciuto unanimemente dalla storiografia letteraria come una delle figure più significative del dopoguerra teatrale, al fianco di Antonio Buero Vallejo, a differenza di quest’ultimo Sastre è stato poco allestito sulle scene se si considerano l’ampiezza del suo corpus e dell’arco temporale della sua attività. Per spiegare questa contraddizione, occorrerà anzitutto richiamare il duro scontro che già negli anni Cinquanta, e con maggior nettezza nel decennio successivo, l’autore ha ingaggiato con la censura franchista. In effetti, Squadra verso la morteè la prima di numerose pièces di Sastre ad attirarsi, nel caso specifico dopo pochi spettacoli, le indesiderate attenzioni di un apparato censorio spesso incoerente e talvolta persino arbitrario, che proibisce integralmente la diffusione sui palcoscenici di alcuni testi o impone loro tagli e aggiustamenti, mostrandosi più preoccupato per le potenziali conseguenze delle messe in scena che per la circolazione a stampa delle opere teatrali. [...]
Stiamo vivendo una fase intensa e conflittuale della politica mondiale. Eventi passati hanno mostrato come i Giochi Olimpici e la Coppa del Mondo siano sempre stati teatro di conflitti diplomatici e ideologici. La Guerra Fredda fu definita "fredda" da George Orwell poiché era combattuta non con armi e conflitti militari aperti, ma piuttosto in altri campi sociali come sport, cultura, scienza, ecc. Vincere una medaglia alle Olimpiadi è sempre stato un status symbol per mostrare la potenza e la superiorità di un paese. Non è una coincidenza che la Cina, gli Stati Uniti e la Russia investano molte risorse economiche per avere atleti eccellenti. È lo stesso per il calcio; L'Italia, la Germania e i paesi emergenti dell'America Latina hanno nel calcio la chiave per diffondere il senso di appartenenza e il patriottismo alle proprie popolazioni. Pertanto, gli ultimi Giochi olimpici e gli ultimi Mondiali di calcio sono stati uno specchio della tendenza sociale della società: grazie alle Olimpiadi è possibile statuire le tensioni tra paesi occidentali ed orientali e grazie alla Coppa del Mondo sono chiari i problemi sociali che dividono le persone di diversa sessualità, origine etnica e religione. [...]
Negli ultimi quarant'anni abbiamo assistito a un crescente divario tra la crescente importanza dell'Unione europea come potenza economica e politica e la partecipazione dei cittadini dell'UE alle elezioni. L'affluenza alle urne è diminuita dal 62% nel 1979, quando i cittadini degli Stati membri hanno votato per la prima volta per il Parlamento europeo, al 43,09% nel 2014, quando i cittadini dell'UE hanno votato conoscendo i candidati alla presidenza del Parlamento europeo Commissione. Ci sono molte domande aperte riguardanti le ragioni di questa popolarità in declino. Questo articolo mira a indagarli analizzando le parti e la comunicazione dei media, con un'attenzione particolare al ruolo della propaganda nazionalista all'interno dell'idea generale di una "crisi delle democrazie occidentali". [...]
Leggendo gli articoli sulla crisi in Ucraina, colpiscono i riferimenti all'inizio della seconda guerra mondiale. “Rischiamo di ripetere gli errori fatti a Monaco nel '38” avrebbe detto il premier inglese Cameron agli altri leader europei, invitandoli a non cercare di placare Putin come era stato fatto con Hitler da Chamberlain (The Guardian, 2 settembre 2014). Si tratta in realtà di riferimenti del tutto incongrui. Incongrui perché la Russia di Putin non ha, fatte le debite proporzioni, la forza militare che aveva il Terzo Reich nell'Europa del 1938, ma soprattutto perché, malgrado ciò che si vuole far credere, la Russia non è un paese in fase di espansione geopolitica. Semmai è stata la NATO che dopo il crollo del muro di Berlino si è andata progressivamente espandendo. [...]
Mai così bene come in questo ultimo anno il termine Ucraina, che significa “vicino al confine”, si addice a questa “terra di frontiera” tra Occidente e Oriente divenuta oggetto di grande attenzione internazionale dopo la decisione del presidente Janukovič di non siglare l’accordo di associazione con l’Unione Europea e il conseguente scoppio delle manifestazioni in Piazza Majdan. Una terra considerata di frontiera in primo luogo per la collocazione geografica del paese divenuto teatro di scontro, ancora una volta come in altre occasioni del passato, di considerazioni geopolitiche antitetiche. Da un lato quelle dell’Unione Europea, in primis della Germania, e degli Stati Uniti che speravano – e sperano ancora – di attirare nella propria orbita il paese; dall’altro quelle della Russia che considera questo paese come facente parte della propria sfera di sicurezza. Ma una terra che può essere definita “di frontiera” anche dal punto di vista della complessa questione linguistica dal cui punto di vista il paese rappresenta un caso del tutto atipico in cui divisioni grossolane sono di facile tentazione ma difficilmente applicabili a fronte di una popolazione che spesso parla indifferentemente ucraino o russo persino durante la medesima trasmissione televisiva. [...]
L’immaginario mondiale del periodo più caldo della Guerra fredda, da Hiroshima all’inizio degli anni Sessanta, è caratterizzato da due opposte figure di scienziati. Da un lato c’è l’icona di uno scienziato anziano, cicciottello, barbuto, calvo e sorridente, una sorta di Babbo Natale. La ritroviamo in diversi film dell’epoca, come il prof. Hamilton, protagonista di un film del 1956 ormai dimenticato, Calabuig di Luis Garcia Berlanga. Esperto di armi nucleari e missili, Hamilton, stanco di lavorare per scopi bellici, si rende irreperibile e si rifugia in un villaggio spagnolo sul mare, dove, tra gente semplice ritrova l’agognata serenità, finché non viene riacciuffato dai militari del suo paese. Dall’altro lato c’è il dr. Stranamore del film del 1963 di Kubrick, consigliere del Presidente degli Stati Uniti e dei generali a 5 stelle, scienziato esperto di atomiche e di missili, nonché iper-razionale stratega cinico, dall’inglese con accento teutonico. [...]
Perché studiare “scienze per la pace”? Qual è il valore aggiunto di un corso di laurea triennale che tratta, in forma interdisciplinare, tematiche legate al mondo della cooperazione internazionale? Quale può essere lo sbocco professionale di laureati che costruiscono nel loro percorso accademico un bagaglio culturale trasversale a diverse discipline e proprio di questa trasversalità ed eterogeneità vogliono fare il loro punto di forza?
In una forma o in un altra, queste domande più che lecite sono quelle che il sottoscritto si è sentito rivolgere ripetutamente durante il proprio percorso universitario, che si è concluso a settembre 2012 con il conseguimento del titolo accademico. Vorrei, qui di seguito, provare a dare una risposta a queste o simili domande, a partire dalla mia diretta e personale esperienza lavorativa, iniziata a novembre 2013 proprio nell’ambito della cooperazione internazionale.
La mia non vuole e non può essere una posizione generale, valida per tutte e tutti. È chiaro che numerosi elementi soggettivi e di casualità, legati ai differenti contesti in cui si è chiamati a vivere e ad operare rendono impossibile tracciare un percorso che sia uguale per tutti. Cercherò comunque di dare una qualche forma strutturata a quanto ho potuto riscontrare “sul campo”, quanto al valore e all’utilizzo pratico di quanto ho appreso durante il mio percorso di formazione universitaria in scienze per la pace. [...]
La centralità che la questione ambientale ha assunto a partire dagli anni Sessanta del Novecento ha stimolato diverse discipline ad intraprendere nuovi campi di ricerca. In questo senso un tentativo molto stimolante, come si evince dalla lettura dell’agile volume di Stephen Mosley tradotto e pubblicato nel 2013 da Il Mulino, è quello volto a tratteggiare una storia dell’ambiente. Come ricorda l’autore nell’introduzione, gli studi storici sull’ambiente si occupano di svelare ed evidenziare il ruolo attivo della natura nei processi storici. L’ambiente, come del resto riconosciuto in molte altri settori di studio – basti ricordare il nuovo paradigma ecologico introdotto nella sociologia statunitense da Riley Catton e William Dunlap (1978) – non è semplicemente uno sfondo sul quale si svolgono le vicende storiche, ma attività umane e trasformazioni della natura sono fortemente intrecciate in un quadro di enorme complessità. [...]
Che cosa significa, oggi, interrogare il “lessico politico”? O meglio: che cosa implica intraprendere la via filosofica della “genealogia” per interpretare il presente, riflettendo sul linguaggio politico? Il volume a più voci curato da Federico Zappino, Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini, e intitolato Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti, offre possibili sentieri da percorrere per chi intende affrontare interrogativi radicali di questo tipo.
Il libro apre il suo itinerario con un “preludio” scritto a sei mani. Gli autori evocano da una parte un'antica, sedicente maledizione cinese – ovvero l'augurio rivolto ai propri nemici di “vivere in tempi interessanti” – dall’altra si richiamano al filosofo Slavoj Žižek e allo storico Eric Hobsbawm, che hanno entrambi ripreso questa metafora per descrivere (il primo) gli odierni tempi di crisi economica, sociale, culturale e politica, (il secondo) la propria autobiografia novecentesca. [...]