I mandarini, le olive, le arance non cadono dal cielo. Sono delle mani che li raccolgono. Lo hanno ricordato con dignità e orgoglio, nel loro appello al governo italiano, i lavoratori africani cacciati a fine gennaio da Rosarno e poi rifugiatisi a Roma, senza lavoro, senza un posto dove dormire, senza i loro bagagli, con le ultime paghe rimaste nelle mani dei loro sfruttatori. A distanza di tre mesi dai drammatici fatti di quei giorni, dobbiamo a questi lavoratori, a tutti i migranti che vivono in Italia e ai loro figli una riflessione seria e distesa, che ci aiuti a capire meglio dove stiamo andando e, soprattutto, se e come sia possibile cambiare rotta. Passati i clamori della cronaca, i problemi di governo dei fenomeni migratori restano inalterati. Essi vanno compresi a fondo se si vuole evitare che dalla disumanizzazione e dallo sfruttamento del lavoro migrante, spinto fino alla schiavitù, si generino nuove esplosioni di violenza. [...]
Come può una lezione di lingua diventare una proficua occasione di conoscenza reciproca e d’incontro tra persone diverse per lingua, cultura, idee, valori, sensibilità? Come può stimolare studenti con bisogni, motivazioni, stili di apprendimento diversi a condividere una dimensione narrativa fatta di autobiografia e di ascolto della storia dell’altro? Come può trasformarsi in un luogo privilegiato per la messa in atto di tecniche di ascolto attivo, di comprensione empatica, di gestione cooperativa e di trasformazione costruttiva delle conflittualità? Un approccio glottodidattico di tipo dialogico può arricchire l’insegnamento linguistico di tutte quelle dimensioni formative richieste da una società multietnica come la nostra, caratterizzata da una notevole pluralità linguistica e culturale.
Gli studi sulla pace possono mettere a profitto la distinzione, impiegata dai giuristi, tra principi e valori. Considerare la pace solo come un valore finale vuol dire ammettere che essa possa stabilirsi anche con mezzi non pacifici; considerarla invece come un principio implica che essa condizioni fin dall’inizio la scelta dei mezzi. Ma per considerare la pace come un principio occorre ammetterla tra le condizioni strutturali dell’esistenza e della convivenza umane. È l’antropologia in fin dei conti, ovvero l’idea che abbiamo dell’uomo, a fondare la nostra concezione della pace.
Che la Siria non fosse la Tunisia o l’Egitto o addirittura la Libia, e che non sarebbe stato altrettanto facile deporre il regime di Damasco era chiaro a chiunque avesse un minimo di conoscenza della regione, e del Paese in particolare. Dopo un anno e mezzo di conflitto sociale, poi trasformatosi velocemente in guerra civile e regionale, sembra che questa constatazione stia prendendo piede anche nelle capitali europee, in Turchia e negli Stati Uniti.
Nella situazione attuale, la caduta del regime di Bashar al Asad comporterebbe un disordine politico e una frammentazione territoriale difficilmente governabile in tempi brevi: né la Turchia, né la Nato, né le monarchie del Golfo hanno ad oggi le risorse e soprattutto le capacità politiche per gestire una situazione post- Asad, e nelle capitali occidentali sembra farsi largo l’idea che i costi della transizione siriana verso le magnifiche sorti progressive del capitalismo di libero mercato e della democrazia rappresentativa non sarebbero sostenibili alla luce dell’esperienza irachena, o della stessa Libia. La crisi economica e le trasformazioni del politiche dell’Asia stanno imponendo delle sfide e delle priorità diverse. Inoltre la Siria confina con Israele, la cui stabilità dei confini è ritenuta intoccabile. E il rischio della presa di potere ad opera di gruppi fondamentalisti islamici in alcune parti della Siria è ritenuta reale e non auspicabile: non certo per ragioni di credenziali democratiche e liberali, ma perché le attività di queste forze sono difficilmente controllabili e possono ritorcersi contro i loro stessi sponsor occidentali e regionali.
Per le diplomazie occidentali si ripresenta dunque l’annoso problema di cosa fare della Siria, o meglio di come sostituire un regime ostile con uno più allineato ai propri orientamenti strategici. Che siano il coinvolgimento in atti terroristici prima, le armi di distruzione di massa poi, e ora la nuova “responsabilità di proteggere”, ogni occasione è sfruttata per mettere alle strette il regime del Partito Ba’th e del suo Presidente Bashar al Asad: e questo indipendentemente dalla verifica concreta delle responsabilità di Damasco per azioni di cui può anche essere sospettata legittimamente. Del resto, le esperienze recenti mostrano come la politica internazionale non abbia bisogno dell’accertamento dei fatti per giustificare nuovi interventi militari.
Il regime di Damasco rimane un nemico, o quantomeno un rivale strategico, per le diplomazie occidentali e per i regimi conservatori del Medio Oriente: la sua alleanza con l’Iran e Hizb’allah, la posizione nei confronti di Israele e l’opposizione ai piani egemonici statunitensi nella regione fanno di Damasco un ostacolo rilevante alla trasformazione del Medio Oriente in un’area del tutto allineata alle strategie globali occidentali. La sua rilevanza risiede in una combinazione di centralità geografica nelle linee di scambio di merci, persone ed energia dall’area del Golfo Persico verso l’Europa, e di importanza nella politica regionale, dato il coinvolgimento nel conflitto arabo-israeliano e nella politica araba e medio-orientale in generale. La presenza di così tanti fattori diversi riflette la complessità della società siriana. E forse è proprio l’incapacità, o semplicemente la non volontà, delle classi dirigenti occidentali di comprendere e valutare questa complessità che rende il Paese arabo così problematico.
Il 17 dicembre 2010 Mohammed Bouazizi, un giovane disoccupato che vendeva verdure per le strade di Sidi Bouzid, piccola città del centro della Tunisia a poco meno di 300 chilometri da Tunisi, si dà fuoco per protestare contro il sequestro, illegale, del suo carretto da parte della polizia. Il 14 Gennaio 2011 il Presidente della Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali, in carica dal 7 novembre 1987, formalmente rieletto per cinque volte con percentuali vicine al 100%, scappa dal paese sulla spinta di una grande rivolta popolare nonviolenta. Agli occhi del mondo la Rivoluzione Tunisina si apre e si chiude con questi due eventi, per poi lasciare spazio ad altre rivoluzioni nel mondo arabo ed alla ‘transizione democratica’ all’interno del paese. Ma è stato davvero così? È possibile che un dittatore del potere e della ferocia di Ben Ali si arrenda in così poco tempo e che, nel medesimo tempo, si compia un processo di trasformazione politica tale da meritare il nome di rivoluzione? Cosa ne è realmente della Rivoluzione Tunisina e quali sono le sue attuali prospettive?
In Italia ci sono più di venti corsi di laurea in “Cooperazione allo sviluppo e pace”. Il numero rilevante di corsi di questo tipo, ormai in quasi tutte le Università italiane, indica che il tema della cooperazione ha acquisito un peso culturale notevole come corrispettivo, nella attuale storia post-coloniale, delle molte attività in tal senso che si svolgono in Italia e all’estero. Mentre tutti gli altri corsi sono di fatto circoscritti ai primi due temi – la cooperazione e lo sviluppo – il corso di laurea in “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa è l’unico che include e articola il tema della pace in maniera significativa. Si tratta di una scelta culturale e politica di fondo, che risponde alle tre 'anime' del corso di laurea: quella matematico-scientifica, quella nonviolenta (alla quale si può associare quella della democrazia e dei diritti umani) e quella della cooperazione. Secondo questa impostazione, le questioni relative alla cooperazione sono articolate all’interno del più ampio e complesso tema della pace; e giustamente. Perché senza giustizia non c’è pace, e senza la costruzione o il ristabilimento di rapporti di equità, la proposta di pace diventerebbe ipocrisia. [...]
'Saremo ricordati'; chi l'ha scritto sul muro di un sito industriale abbandonato vicino a Rosarno, nella regione meridionale italiana della Calabria, non sapeva quanto sarebbe stato giusto. Lo scrittore anonimo era una delle centinaia di migranti di molti paesi africani che lavoravano in questa regione come raccoglitori di arance durante l'inverno. Anno dopo anno, trasformarono una vecchia fabbrica di olio d'oliva in un rifugio molto precario e scomodo. La frase sul muro appare come un messaggio in una bottiglia, inviata prima che le autorità allontanassero quasi tutti gli africani dalla città "per la loro stessa sicurezza". Si riferisce al tumulto esploso il 7 gennaio 2010 a Rosarno, dove centinaia di migranti si sono ribellati dopo che due di loro sono stati feriti da tre giovani italiani in una sparatoria. Gli operai in rivolta hanno dato alle fiamme bidoni della spazzatura, distrutto vetrine e macchine, ingaggiato scontri di guerriglia urbana con la polizia, e infine sono diventati l'obiettivo di una "caccia al nero" scatenata dalla popolazione residente: durante la stessa notte molti migranti sono stati colpiti con sbarre di ferro e due sono stati uccisi. Nei tre giorni successivi, con la scusa di proteggerli dalla furia degli italiani, circa 2.000 lavoratori africani furono trasferiti dal sito dalla polizia o fuggirono volontariamente. [...]
Nel 2006 l’uso da parte dell'ex presidente americano Jimmy Carter della parola “apartheid” nel titolo del suo libro sulla Palestina suscitò forti polemiche e durissime critiche, sia negli USA che in Israele. Il libro fu considerato offensivo e ai limiti dell'antisemitismo. Sembra che ora le cose siano cambiate e che, in un certo senso, il termine sia stato ‘sdoganato’ anche in Israele, ma non per il meglio. Secondo i risultati di una indagine, pubblicati su Haaretz lo scorso 23 ottobre, “la maggioranza degli ebrei israeliani sarebbe a favore di un regime di apartheid in Israele, nel caso di annessione formale della Cisgiordania”, e il 69% sarebbe contrario a dare ai palestinesi dei territori annessi il diritto di voto. È vero che la maggior parte degli ebrei israeliani resta contraria all'annessione, ma è anche vero che la situazione di occupazione attuale, contro la quale pochissimi in Israele si mobilitano, costituisce un’annessione de facto anche se non de iure. Inoltre “una maggioranza è anche a favore di una discriminazione nei riguardi dei cittadini arabi di Israele”. È interessante il fatto che il 58% degli ebrei israeliani ritenga che già oggi sia in vigore una politica di apartheid nei riguardi degli arabi in Cisgiordania. Il fatto che termine non solo non crei più scandalo, ma anzi che abbia connotazioni positive, è uno degli effetti di una progressiva radicalizzazione del senso comune all’interno della società israeliana, anche come conseguenza del protrarsi del conflitto. [...]
Questo articolo è un commento al verdetto del "L’Aquila Six", il gruppo di burocrati e scienziati processato da un tribunale italiano in seguito alle loro dichiarazioni pubbliche in previsione del terremoto del 6 aprile 2009 che ha lasciato la città in rovina e causa più di 300 morti. Non è stato il peggiore evento catastrofico della recente storia italiana, ma è stato uno dei - se non il - peggiore fallimento della valutazione del rischio e dell'azione preventiva. I sei sono stati giudicati colpevoli e condannati da un primo livello del sistema giudiziario a pene detentive sostanziali. Il clamore provocato dal verdetto della stampa mondiale e della comunità scientifica internazionale ha alimentato il già acceso dibattito. Sono stati presentati come martiri alla scienza trattata come capro espiatorio da un sistema giudiziario scientificamente analfabeta e infiammata popolazione locale per non essere in grado di eseguire l'impossibile (prevedere l'evento). Petizioni di sostegno sono state redatte e firmate da migliaia di scienziati lavoratori ed esperti tecnici in molti campi, condannando la corte e il paese a sdegno contro la comunità scientifica, spesso accompagnate da minacciosi avvertimenti sull'effetto agghiacciante che questo avrà sulla disponibilità di consulenza di esperti in caso di necessità. Il mio scopo qui è spiegare perché questa visione degli eventi del processo è fuorviata, per quanto ben intenzionata e disinformata.
Per iniziare con la stessa affermazione che ha dato inizio al processo, quella del pubblico ministero (procura), tutti sanno che non si può prevedere un terremoto, specialmente uno come questo. Questo non era il motivo per l'atto d'accusa. I sei - e il capo della difesa civile dell'epoca - erano colpevoli di fare affermazioni false e deliberatamente fuorvianti che avevano lo scopo di calmare il pubblico in un momento di crescente allarme e che causava azioni imprudenti - azioni incaute - basate sulle loro dichiarazioni di esperti. Il caso ha un vantaggio, tuttavia: ha messo in evidenza un tema fondamentale che le comunità accademiche e di ricerca hanno spesso ignorato: la responsabilità di comunicare chiaramente, frequentemente e direttamente con il pubblico in generale. [...]
La sentenza del tribunale dell’Aquila che, il 22 ottobre 2012, ha condannato, seppure in I grado, gli esponenti della Commissione Grandi Rischi (CGR) ha suscitato un vespaio di polemiche ma, soprattutto, ha acceso una discussione sulla quale esistono molte lacune, se non mistificazioni sulle quali sarebbe opportuno riflettere, in particolare prima di formulare giudizi che altrimenti risulteranno approssimativi o incongrui. La prima osservazione sulla quale riflettere è che costoro, i membri della CGR, non sono stati affatto condannati per non aver saputo prevedere il forte terremoto del 6 aprile 2009 che ha distrutto l’Aquila. L’asserzione che i terremoti, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, non siano prevedibili è assolutamente vera. Ma proprio perché non sono prevedibili non è possibile prevedere che non ci saranno! I membri della CGR hanno fatto proprio questo: hanno previsto che non ci sarebbe stato un forte terremoto, quindi l’assenza di un pericolo grave, rassicurando incautamente la popolazione. [...]