Israele: una società divisa

Abstract

Nel 2006 l’uso da parte dell'ex presidente americano Jimmy Carter della parola “apartheid” nel titolo del suo libro sulla Palestina suscitò forti polemiche e durissime critiche, sia negli USA che in Israele. Il libro fu considerato offensivo e ai limiti dell'antisemitismo. Sembra che ora le cose siano cambiate e che, in un certo senso, il termine sia stato ‘sdoganato’ anche in Israele, ma non per il meglio. Secondo i risultati di una indagine, pubblicati su Haaretz lo scorso 23 ottobre, “la maggioranza degli ebrei israeliani sarebbe a favore di un regime di apartheid in Israele, nel caso di annessione formale della Cisgiordania”, e il 69% sarebbe contrario a dare ai palestinesi dei territori annessi il diritto di voto. È vero che la maggior parte degli ebrei israeliani resta contraria all'annessione, ma è anche vero che la situazione di occupazione attuale, contro la quale pochissimi in Israele si mobilitano, costituisce un’annessione de facto anche se non de iure. Inoltre “una maggioranza è anche a favore di una discriminazione nei riguardi dei cittadini arabi di Israele”. È interessante il fatto che il 58% degli ebrei israeliani ritenga che già oggi sia in vigore una politica di apartheid nei riguardi degli arabi in Cisgiordania. Il fatto che termine non solo non crei più scandalo, ma anzi che abbia connotazioni positive, è uno degli effetti di una progressiva radicalizzazione del senso comune all’interno della società israeliana, anche come conseguenza del protrarsi del conflitto. [...]

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