Issues / 2017 / Federico Oliveri

Le ultime settimane del 2011 sono state fondamentali per la democrazia in Medio Oriente, come illustrato dagli sviluppi in diversi paesi. Nello Yemen, Ali Abdullah Saleh ha firmato un accordo per rinunciare al potere, anche se deve ancora mantenere questo impegno ripetuto; in Bahrain, il governo ha accettato i risultati di un rapporto sui diritti umani; in Egitto, migliaia di persone hanno dimostrato di reclamare la loro rivoluzione; e in Tunisia, Egitto e Marocco, si sono svolte le elezioni parlamentari, le prime dall'ondata di proteste che ha iniziato a spazzare il mondo arabo nel dicembre 2010.
L'esperienza del Marocco nel contesto di queste tendenze a livello regionale è stata distintiva come quella di qualsiasi altro paese arabo. Nel 2011 anche il Marocco è stato caratterizzato da proteste popolari che chiedevano cambiamenti governativi e riforme costituzionali (vedi "The Moroccan exception, and a king’s speech", 11 marzo 2011 su Open Democracy). [...]

È proprio vero, come sostengono polemicamente alcuni studiosi, che “se consideriamo la riflessione accademica, ma anche l’universo del discorso giornalistico, di quello politico, di quello quotidiano e di senso comune, ci accorgiamo che la tanto sbandierata novità delle reti finisce di fatto per dare luogo a nulla di più che un’appendice alle vecchie chiacchiere sui mass media” (Paccagnella, 2002, pp. 95-96)? Era il 1964 quando Umberto Eco pubblicava il suo famoso saggio sugli «apocalittici» e gli «integrati», ossia sulle due linee di pensiero che vedevano nel diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa (radio e soprattutto televisione) due tendenze evolutive opposte: i primi ne denunciavano la portata negativa, i secondi ne esaltavano quella positiva. Entrambe le posizioni però, malgrado gli assunti diametralmente opposti, condividono secondo Paccagnella una medesima concezione dell’utente come “soggetto passivo”, che tende a subire o effetti negativi o effetti positivi a prescindere dalla sua “volontà”. Tuttavia la televisione, la radio e oggi internet sono solo degli “strumenti”, ossia non hanno di per sé un senso, a meno che non sia l’utente ad attribuirgliene uno. E questo perché “il fruitore dei media non è una semplice spugna che si limita ad assorbire il flusso comunicativo a cui viene esposta, ma costruisce attivamente il senso e il significato dei messaggi fino ad arrivare a poter essere considerato un co-autore della comunicazione” (Paccagnella, 2002, p. 100). [...]

Non li vediamo, non li sentiamo, non emanano cattivi odori eppure sappiamo che i campi elettromagnetici ci sono. Non è necessario scomodare Sherlock Holmes per accorgersi della loro presenza. Ne abbiamo le prove. Sono sufficienti, ad esempio, i telefoni cellulari che comunicano tra loro senza alcuna connessione via cavo. Ci basta pensare alle radio o ai telefoni cordless per intuire una presenza invisibile e, proprio per questo, più inquietante. Da sempre, infatti, l'essere umano è spaventato da ciò che non vede. Il buio, ancora oggi, nonostante ogni sforzo razionale, incrementa la nostra percezione del pericolo. Non per il buio in sé, ma per l'impossibilità di usare a pieno le capacità del nostro apparato visivo.
Sappiamo, dunque, che i campi elettromagnetici esistono: occorre tenerne conto, come di un risvolto inevitabile della sempre maggiore connettività e dell’intensificazione globale delle comunicazioni proprie della società contemporanea. Ma come facciamo a distinguere i diversi campi, ad esempio, quelli potenzialmente dannosi e quelli innocui? Se non li vediamo, come facciamo a sapere quali sono le fonti di rischio? Partiamo da una semplice constatazione: viviamo in un mondo immerso in campi elettromagnetici, sia in ambienti domestici che lavorativi attraversati da reti di telefonia mobile, reti wireless, segnali radio e TV, segnali satellitari, elettrodotti, ecc. Ormai sembra raro trovare zone “elettrosmog free”. E allora come dobbiamo comportarci? [...]

Uno studio finanziato dalla Fondazione Rockfeller offre lo spunto per una riflessione sul ruolo delle nuove tecnologie della comunicazione e dell'informazione nel disegno delle città del prossimo futuro e sulla significativa posta in gioco sul piano delle garanzie democratiche, della sostenibilità sociale/ambientale, dell'inclusione delle categorie sociali emarginate. Lo studio pone in evidenza come “il prossimo decennio sarà un periodo di rapida espansione nella fornitura di dati urbani e di un loro utilizzo sempre più sofisticato. La fornitura si espanderà come conseguenza del costo decrescente dei sensori, dei tipi di indicatori che essi permetteranno di misurare e del livello di dettaglio” (IFTF 2011).
Storicamente, la nostra capacità di monitorare la città è stata limitata. Gli stessi censimenti demografici si mostrano inadeguati di fronte alle città in rapida crescita nel Sud del mondo ed ai loro enormi insediamenti informali. E, ancora, le complesse dinamiche migratorie che interessano anche le città del Nord possono fare apparire insufficienti e subito obsolete le rilevazioni censuarie periodiche in termini di capacità descrittiva dei fenomeni. [...]

Negli anni ‘10 del Novecento l’ingegner Frederick Winslow Taylor, il padre dell’organizzazione scientifica del lavoro, sosteneva che il lavoratore ideale doveva somigliare a Schmidt, l’operaio- ideale scelto tra altri 74 per trasportare la ghisa perché “tonto”, pieno di “spirito di sacrificio”, “non molto aperto di mente”, e così “sciocco e paziente da ricordare come forma mentis... la specie bovina”. Tanta “ottusità” risultava attraente per Taylor perché i lavoratori più “sciocchi obbediscono sempre” (Taylor 1954) anche quando non gli converrebbe. Schmidt aveva accettato, infatti, a fronte di un incremento del 60% del salario, di sobbarcarsi quasi il 400% di lavoro in più.
Taylor e la sua visione appartengono al passato? Ci dicono di no le recenti cronache che arrivano dalla Fiat sull’eliminazione delle pause durante il lavoro: alla catena di montaggio, nella maggiore fabbrica italiana, si lavora con il sistema Ergo-Uas combinato con il Wcm (World class manufacturing), per cui il lavoratore non può muovere neanche un passo dalla sua postazione, durante 18 turni, sabato compreso, svolgendo almeno 120 ore di straordinario l’anno.

Di Viareggio, Franco Marioni aveva conservato l’adeguata improntitudine che lo portava a parlare solo per battute spiritose, e che veniva a costituire il fondo della sua cordiale allegria. Aveva mantenuto anche l’amore per la comunità della piccola cittadina, con l’amorosa partecipazione ai problemi dei diritti umani, ai beni comuni, al lavoro, alla convivenza e alla pace. Segno di questo, le parole amiche di ultimo commiato da parte di Luigi Sonnenfeld, continuatore di Sirio Politi alla direzione della piccola rivista locale “Lotta come amore”. [...]

Per riuscire a comprendere ed analizzare al meglio l'odierna situazione riguardo alla regolamentazione di internet, e quindi ai processi che hanno portato alle leggi e ai trattati internazionali in discussione in questo periodo, è importante ripercorrere in maniera più o meno cronologica i passi legislativi, statunitensi e non, dal 1998 ad oggi. È infatti nel 1998, quando gli Stati Uniti d'America decidono di emanare il DMCA (Digital Millenium Copyright Act) per implementare e rafforzare il contenuto di due trattati redatti nel 1996 dall'Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale delle Nazioni Unite (WIPO), che inizia un lungo processo di censura del web. Questa legge dichiara illegale la produzione e la diffusione di strumenti, servizi o tecnologie che possono aiutare ad aggirare i meccanismi di protezione della proprietà intellettuale e criminalizza qualsiasi elusione dei suddetti meccanismi di protezione, anche se non violano esplicitamente il diritto d'autore. I vari SOPA (Stop Online Piracy Act), PIPA (Preventing Real Online Threats to Economic Creativity and Theft of Intellectual Property Act) e ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement) non sono altro che formalizzazioni della linea introdotta dal DMCA. [...]

Per molto tempo c'erano solo poche università nel mondo. Il corpo studentesco totale in queste istituzioni era molto piccolo. Questo piccolo gruppo di studenti è stato disegnato in gran parte dalle classi superiori. Frequentare l'università conferiva un grande prestigio e rifletteva un grande privilegio.
Questo quadro ha cominciato a cambiare radicalmente dopo il 1945. Il numero di università ha iniziato a espandersi considerevolmente e la percentuale di persone nella fascia di età che ha frequentato le università ha iniziato a espandersi. Inoltre, non è stata un'espansione solo in quei paesi che avevano già avuto università di rilievo. L'istruzione universitaria è stata avviata in un gran numero di paesi che avevano poche o nessuna istituzioni universitarie prima del 1945. L'istruzione superiore è diventata mondiale. [...]

Il 24 Luglio del 2006 Argentina, Australia, Costa Rica, Finlandia Giappone, Kenya, Regno Unito presentarono alle Nazioni Unite una bozza di risoluzione dal titolo “Towards an arms trade treaty: establishing common international standards for the import, export and transfer of conventional arms”. La risoluzione venne approvata il 6 Dicembre dello stesso anno. Il 2 Aprile del 2013, dopo 6 anni di negoziati, l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato il Trattato sul Commercio d’Armi (Arms Trade Treaty, ATT) con 154 voti a favore, 23 astenuti (tra i quali “grandi esportatori” come la Federazione Russa e la Cina e “grandi importatori” come l’Egitto) e 3 contrari (Iran, Siria e Corea del Nord). Ci sembra pienamente condivisibile quanto dichiarato da Brian Wood, direttore del Programma Controllo delle Armi e Diritti Umani di Amnesty International “Il mondo aspettava da tempo questo storico trattato. Dopo una campagna durata lunghi anni, la maggior parte degli stati ha detto sì a un trattato che potrà impedire l'afflusso di armi verso paesi in cui saranno usate per commettere atrocità. Nonostante il tentativo, vergognosamente cinico, di Corea del Nord, Iran e Siria di affossare il trattato, una schiacciante maggioranza di paesi ha mostrato un rumoroso sostegno a un trattato che salverà vite umane e che pone al centro la protezione dei diritti umani" [...]

Sono un figlio dei movimenti di decolonizzazione e di indipendenza. Ancora giovane in Guinea-Conakry mi sono imbattuto in una famosa frase di Frantz Fanon, contenuta ne I dannati della terra: “gli uomini (...) si rendono conto che ogni cultura è innanzitutto nazionale”. In altri termini, nel contesto delle lotte anti-coloniali, non ci sarebbe altra cultura che la cultura nazionale. La parola d’ordine è stata così stabilita, e ovunque, dall’Algeria al Congo, attraverso il Mali e il Ghana, abbiamo dovuto costruire la nostra modernità nelle lotte di liberazione che hanno fatto di noi, donne e uomini nuovi in nazioni sovrane, portatrici di culture viventi. Per Fanon e altri profeti delle indipendenze, perfino il panafricanismo ha dovuto passare attraverso gli Stati Nazione che avevano ottenuto la loro sovranità contro l’imperialismo occidentale.

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