Abstract
Che la Siria non fosse la Tunisia o l’Egitto o addirittura la Libia, e che non sarebbe stato altrettanto facile deporre il regime di Damasco era chiaro a chiunque avesse un minimo di conoscenza della regione, e del Paese in particolare. Dopo un anno e mezzo di conflitto sociale, poi trasformatosi velocemente in guerra civile e regionale, sembra che questa constatazione stia prendendo piede anche nelle capitali europee, in Turchia e negli Stati Uniti.
Nella situazione attuale, la caduta del regime di Bashar al Asad comporterebbe un disordine politico e una frammentazione territoriale difficilmente governabile in tempi brevi: né la Turchia, né la Nato, né le monarchie del Golfo hanno ad oggi le risorse e soprattutto le capacità politiche per gestire una situazione post- Asad, e nelle capitali occidentali sembra farsi largo l’idea che i costi della transizione siriana verso le magnifiche sorti progressive del capitalismo di libero mercato e della democrazia rappresentativa non sarebbero sostenibili alla luce dell’esperienza irachena, o della stessa Libia. La crisi economica e le trasformazioni del politiche dell’Asia stanno imponendo delle sfide e delle priorità diverse. Inoltre la Siria confina con Israele, la cui stabilità dei confini è ritenuta intoccabile. E il rischio della presa di potere ad opera di gruppi fondamentalisti islamici in alcune parti della Siria è ritenuta reale e non auspicabile: non certo per ragioni di credenziali democratiche e liberali, ma perché le attività di queste forze sono difficilmente controllabili e possono ritorcersi contro i loro stessi sponsor occidentali e regionali.
Per le diplomazie occidentali si ripresenta dunque l’annoso problema di cosa fare della Siria, o meglio di come sostituire un regime ostile con uno più allineato ai propri orientamenti strategici. Che siano il coinvolgimento in atti terroristici prima, le armi di distruzione di massa poi, e ora la nuova “responsabilità di proteggere”, ogni occasione è sfruttata per mettere alle strette il regime del Partito Ba’th e del suo Presidente Bashar al Asad: e questo indipendentemente dalla verifica concreta delle responsabilità di Damasco per azioni di cui può anche essere sospettata legittimamente. Del resto, le esperienze recenti mostrano come la politica internazionale non abbia bisogno dell’accertamento dei fatti per giustificare nuovi interventi militari.
Il regime di Damasco rimane un nemico, o quantomeno un rivale strategico, per le diplomazie occidentali e per i regimi conservatori del Medio Oriente: la sua alleanza con l’Iran e Hizb’allah, la posizione nei confronti di Israele e l’opposizione ai piani egemonici statunitensi nella regione fanno di Damasco un ostacolo rilevante alla trasformazione del Medio Oriente in un’area del tutto allineata alle strategie globali occidentali. La sua rilevanza risiede in una combinazione di centralità geografica nelle linee di scambio di merci, persone ed energia dall’area del Golfo Persico verso l’Europa, e di importanza nella politica regionale, dato il coinvolgimento nel conflitto arabo-israeliano e nella politica araba e medio-orientale in generale. La presenza di così tanti fattori diversi riflette la complessità della società siriana. E forse è proprio l’incapacità, o semplicemente la non volontà, delle classi dirigenti occidentali di comprendere e valutare questa complessità che rende il Paese arabo così problematico.