Abstract
L’agricoltura italiana si sta popolando sempre più di lavoratori d'origine straniera. Immigrati di varie nazionalità sono impiegati nelle mansioni e nei settori più disparati, soprattutto in arboricoltura e in orticoltura, ma anche negli allevamenti e nel taglio dei boschi. È ragionevole pensare che essi costituiscano quasi il 20% della manodopera agricola rilevabile statisticamente, con un’alta percentuale di stagionali diminuita fino al 2005 e poi risalita (INEA, 2009). Si tratta di una concentrazione significativa, visto che gli stranieri presenti in Italia costituiscono circa il 7% della popolazione totale. Alcuni fanno parte più o meno stabilmente delle imprese agricole, fino a diventare imprenditori; altri spariscono nel nulla. Oggetto di sfruttamento e di razzismo, quando si ribellano rischiano di essere identificati e, se privi di documenti validi, espulsi. La loro presenza è per lo più invisibile, diventando di dominio pubblico solo in occasioni di emergenza sociale, come la rivolta di Rosarno del gennaio 2010.
Le ultime cronache dalla Piana di Gioia Tauro, le fughe di notizie dalle campagne della Puglia, i rapporti della missione di Medici Senza Frontiere sulla condizione dei braccianti agricoli nel Mezzogiorno (Medici senza frontiere, 2008), mettono in luce gravi emergenze sociali nelle campagne italiane. Più che casi locali, da lasciare a loro stessi, questi fatti rappresentano la superficie di un continente sommerso, il segnale d'allarme di un mondo rurale in crisi e in piena trasformazione. Essi danno così la spinta per decriptare una realtà complessa, sfidando se necessario schemi metodologici e interpretativi consolidati. [...]